Mitologia/Cilento
La vita immaginaria e i miti territoriali
Nell’area cilentana, gli studi storico-sociali rilevano ancora l’importanza del concetto di Genius loci, una commistione di vita materiale e immateriale che condiziona atteggiamenti, comportamenti, vita comunitaria, senso di appartenenza ed attaccamento al territorio.
Di Pasquale Martucci
La tendenza delle nostre società è di considerare la vita delle popolazioni attraverso il quotidiano, che tuttavia non tralascia alcune manifestazioni riconducibili all’immaginario, un modo di allargare gli orizzonti oltre il livello razionale, oltre quella che alcuni reputano la “verità” dell’esistenza. E ciò perché la società non può fare a meno di considerare nella sua complessità tutte le forme di vita materiali e immateriali, che si si concretizzano in orizzonti differenti in cui la conoscenza considera il pensiero magico, il riconoscimento della cultura antropologico-tradizionale, mettendo in connessione una infinità di variabili. È l’auto-eco-ri-organizzazione di Morin, in cui il soggetto si complessifica (Morin E., Il metodo VII. Il metodo del metodo, Armando Siciliano, 2021).
Uno dei sociologi che meglio hanno inteso affrontare l’immaginario è Michel Maffessoli che rilevava come esso contenesse la vita vera, così come aveva sostenuto, nella seconda metà del novecento, l’antropologo Gilbert Durand con la ricomposizione di razionale e reale. Tutto ciò considerando il “dovere dello stato” umano di confrontarsi con le sue origini ancestrali, la “dimensione dinamica” del mito. Lo stare insieme sarebbe un sentimento di appartenenza e il reale sarebbe reso possibile nel confronto con irreale, fantasmi, sogni, miti e simboli, che strutturano la vita sociale. Questa riflessione è contenuta in: Durand G., Introduzione alla mitodologia, a cura di Valentina Grassi, Mimesis, 2022.
Nell’area cilentana, gli studi storico-sociali rilevano ancora l’importanza del concetto di Genius loci, una commistione di vita materiale e immateriale che condiziona atteggiamenti, comportamenti, vita comunitaria, senso di appartenenza ed attaccamento al territorio.
In questo scritto riporto un esempio di come l’immaginario possa essere applicato al contesto, riprendendo un libro di non troppo tempo fa in cui la razionalità della ricerca è coniugata con l’irrealtà del mito. Mi riferisco a: Baldini A., La Greca A., Le Nove Muse del Cilento. Viaggio nell’immaginario culturale di una terra del sud, (Edizioni del Centro di Promozione Culturale per il Cilento, 2018). Sono affrontate le radici di un territorio, quello cilentano, attraverso la memoria filosofica della Scuola Eleatica, i templi di Poseidonia/Paestum, il passato di baroni e feudatari, l’arretratezza economica che ha sempre affascinato per “l’incanto di una natura selvaggia, una lingua che risente della musicalità dei versi omerici, la Dieta Mediterranea, patrimonio dell’Umanità Unesco”. Allargando l’orizzonte è il luogo dove alberga il mito: qui il Canto delle Sirene conduce alle Muse, individuate come le divinità della memoria e delle arti, creature meravigliose, donne sagge e bellissime, figlie di Zeus e Mnemosine, la personificazione della memoria. Nove notti insieme, nove notti sullo stesso giaciglio, nove notti persi l’uno nello sguardo dell’altro: da questi passionali momenti, in cui il Signore dei cieli e l’antica memoria si congiungevano nell’atto d’amore, nacquero loro, le Muse, che con le loro doti davano lustro alla storia e alla tradizione.
L’utilizzo della mitologia pone il potere della conoscenza, Zeus, e la memoria, Mnemosine, che permette di immaginare la cultura cilentana intorno alle caratteristiche delle Muse. Si parte da Calliope, “colei che ha una bella voce”. Vincenzo Aversano lavora sulla geografia demo-insediativa, tra continuità e fratture storiche e territoriali. Per i Greci l’Epica era la narrazione delle battaglie e delle gesta eroiche di uomini e popoli, e dunque rappresentava la narrazione in versi della Storia. Clio è “colei che può rendere celebri”. Amedeo La Greca, attraverso un importante excursus etimologico, si cimenta tra poesia epica, storia, mitografia dei luoghi e dei popoli. Era la Musa della Storia, l’ispiratrice degli storici e degli studiosi del passato, la storiografia. Erato, “colei che provoca desiderio”, conduce Giuseppe Benelli ad occuparsi soprattutto della filosofia eleatica. Il nome deriva da Eros, il dio dell’amore, della lirica, ovvero la poesia amorosa. Euterpe è “colei che rallegra”. Fernando La Greca gusta il profumo delle rose, Paestum, tra tradizione e sperimentazione, la Musa della musica e la protettrice degli strumenti a fiato. Melpemene, “colei che canta la tragedia”, è inquadrata da Antonio Capano nei drammi e nella conflittualità, le incursioni dei Saraceni. La Musa aveva in mano un pugnale insanguinato e una maschera dal volto triste. Polimnia, “colei che ha molti inni”, fa compiere a Domenico Ienna osservazioni, tra la danza e il ritmo, associate alla pietra incisa del Museo di Moio. È rappresentata sempre con aspetto devoto e contemplativo, vestita d’un lungo abito e con il velo sulla testa, la Musa del canto Sacro. Tersicore, “colei che si diletta nella danza”, è ripresa da Silvia Siniscalchi attraverso i diari di viaggio di tanti viaggiatori e cultori del territorio, tra descrizione e narrazione. La danza è centrale, una delle arti più importanti e amate dai Greci, tanto che in molti luoghi era praticata anche dagli uomini. Thalia, “colei che è festiva”, fa rilevare il linguaggio. Francesco Avolio, tra lingue e dialetto, utilizza la Musa della Commedia, importante presso i greci quando sfociava nella satira, divenendo dunque un momento di contestazione politica. Infine, la nona Musa è Urania, “colei che è celeste”. Luigi Crispino osserva l’importanza della Dieta Mediterranea, quella cilentana. Era la Musa dell’astronomia e della geometria, colei a cui si rivolgevano gli studiosi del cielo, degli astri e delle forme.
Questo riferimento per sostenere come nell’alveo dell’immaginario, della costruzione mitica, si possono contestualizzare i fenomeni che si succedono nel corso della storia.
Valentina Grassi, che cura il libro di Durant e già nel 2006 aveva prodotto il lavoro: Introduzione alla sociologia dell’immaginario. Per una comprensione della vita quotidiana (Guerini), propone la funzione creatrice delle immagini simboliche, dove il reale è frutto di un processo in cui coincidono stati psichici ed eventi esterni. Afferma che è nel corso del XX secolo che si ha una rivalutazione del concetto di immaginario come “sistema dinamico, organizzatore di immagini che assumono senso grazie alla relazione che intercorre tra loro”. La riabilitazione delle immagini si ha con studiosi quali: Bachelard, Jung, Eliade, Corbin, Morin, e con Durand che cercherà di dare una sistematizzazione. La Grassi distingue tra: il segno, l’immagine, e il simbolo. Se l’immagine è la prima forma che assume l’attività immaginativa, il segno, come “unità di base di ogni modello di significazione”, è arbitrario in quanto non implica alcun legame naturale tra significato e significante. È simbolo un qualsiasi elemento dal momento in cui è portatore di una “carica semantica” che trascende il senso proprio inserendosi all’interno della struttura della significazione immaginaria. Il metodo necessario per l’esplorazione di quell’universo è individuato nella fenomenologia: Husserl il fondatore, Schutz il sociologo che seguendone la metodologia apre la strada a Berger e Luckmann e Goffman. È la sociologia comprendente che offre la possibilità di rendere giustizia all’immaginario, che ricompone il campo della realtà quotidiana. (Grassi V., 2022, p. 91)
L’intento dell’autrice è di fondare una nuova sociologia che deve essere un approccio fenomenologico e comprensivo delle forme di socialità e del ruolo all’interno del vissuto quotidiano e collettivo. In quest’ottica, la conoscenza è in perpetuo movimento, è sempre approssimativa e intuizionista soprattutto quando si studiano entità fluide come il vissuto quotidiano. La realtà è il risultato di rappresentazioni collettive che si fondano sull’universo immaginale in cui ogni società è immersa. Sta accadendo all’interno delle società moderne l’affiorare di gruppi, tribù, nel linguaggio di Maffessoli, animate da un’etica dell’estetica, che si riconoscono in immagini e simboli comuni, mostrano la presenza di una sostanza reticolare fondata sullo spirito di gruppo anti individualista. Le tribù condividono delle caratteristiche: emozioni e passioni comuni, radicamento nel territorio, una dimensione quotidiana e rituale e il desiderio di erranza. Per comprendere appieno queste effervescenze è importante assumere un nuovo punto di vista che renda conto del portato dell’universo immaginario all’interno della vita quotidiana, come sostiene Ivana Parisi, in: Introduzione alla sociologia dell’immaginario. Per una comprensione dell’immaginario di Valentina Grassi, in “Rivista di Studi Sociali sull’immaginario”, Anno II, numero 2, dicembre 2013.
Faccio un ulteriore passo in avanti per dire che già Gilbert Durant nella famosissima opera: Le strutture antropologiche dell’immaginario. Introduzione all’Archetipologia generale (Edizioni Dedalo, 1984, or 1960), aveva affermato come il linguaggio e la socialità, caratteristiche fondamentali dell’uomo, sono resi possibili solo dai simboli che insieme ai miti devono essere studiati nelle sue unità costitutive, quelle che Lévi-Strauss chiamava “mitemi”. Essi sono necessari a un’esistenza umana integrata e aperta, per cui realizzare l’interazione fra la soggettività della persona e l’ambiente circostante è possibile con l’affermazione di questi elementi fondamentali affinché l’esperienza umana non sia ridotta solo alla sua dimensione biologica ovvero a quella dell’economia e del lavoro. Durand si muoveva fra psicologia, sociologia e antropologia, poiché intendeva disegnare una tipologia dell’immaginario che potesse avere una complessa funzione simbolica, perché l’archetipologia intende percorrere le dinamiche relazionali fra l’uomo e l’ambiente: “esiste una genesi reciproca che oscilla dal gesto di pulsione all’ambiente circostante materiale e sociale, e viceversa”. (Durand G., 2022, p. 32)
Il ritorno all’immaginario soppianta il pensiero calcolatore, economico, per approdare a quello iconico, attento al qualitativo. È un pensiero meditativo, ovvero la “memoria collettiva come fondamento della vita sociale”. Il dovere della memoria, come sostrato delle società, che determina le modalità di comportamento, lo stare al mondo individuale e collettivo, essere in-comune, che restituisce importanza al corpo, ai sensi, al sensibile. L’immaginario è il passaggio dal progressismo devastante ad una condizione più in accordo con la natura. È il momento dove la ragione diviene sensibile. Si tratta di una sorta di continuità fedele alla tradizione, dove le modalità dell’essere si radicano nell’avvenire, “il dovere della memoria assume un percorso mitodologico”, le fantasie dell’immaginario sono vissute “come gli archetipi che ridanno forza e vigore alla vita di tutti i giorni”. Durante le fasi nascenti delle culture, i momenti fondanti di ciò che diventa civilizzazione sono gli “emblemi”, che uniscono pensiero e sentire. È dai sensi che si accede all’intelletto che è infinito. E l’immaginario permette di passare dal visibile (sensi) all’invisibile (mente). È a partire da: immagini, immaginazione, immaginario, immaginale, che si crea la vita individuale e collettiva. (Maffessoli M., in Durand G., 2022, pp. 7-11)