Intervista a Maurizio Bolognetti sulla informazione al tempo della guerra

Intervista a Maurizio Bolognetti sulla informazione
al tempo della guerra

di Sergio Mantile

Nel mentre infuria la guerra alle porte dell’Europa, e Putin da un lato e Biden dall’altro, rilanciano con frequenza quasi quotidiana – con dichiarazioni ma anche con atti – la possibilità dell’opzione nucleare (ovvero, della fine del mondo) da noi la questione viene seguita con scarso interesse, quasi come una soap opera con poco appeal. Quale ruolo ritieni abbiano giocato l’informazione giornalistica e la politica nella disattenzione pubblica per un rischio così elevato e ampio?

L’ho detto e non posso che ripeterlo una volta di più: resto attonito nel vedere che l’orrore della guerra va in scena come se fosse un’appendice dell’Isola dei famosi o del Grande fratello. Larga parte della stampa sta trattando questo dramma come una partita di calcio. Peggio, siamo alle curve hooligans, alle curve ultras. C’è una narrazione compiaciuta in cui non c’è spazio per analisi e critiche; è tutto in bianco e nero e se solo ci si azzarda ad affermare che una qualche responsabilità nel precipitare degli eventi va attribuita anche agli Usa e all’Europa, come minimo ti viene appiccicata l’etichetta di filo-putiniano. Le dinamiche in atto sono le stesse della vicenda Covid. Faccio un esempio. Il 17 maggio, Skytg24 ha intervistato la direttrice di “Kiev Indipendent”, Olga Rudenko, la cui immagine è finita sulla copertina di Time come simbolo di una informazione libera e indipendente. Cosa ha dichiarato la Rudenko ai microfoni di Sky? Vale la pena riportarlo: “Zelensky non prende bene le critiche. Nei due anni e mezzo del suo governo abbiamo visto che la sua irritazione nei confronti dei giornalisti è cresciuta, non si è mai sentito a suo agio nel rispondere alle critiche. È molto bravo nel fare dichiarazioni e a fare video per i social, ma quando si tratta di conferenze stampa in cui deve affrontare le critiche si arrabbia facilmente, offende e insulta i giornalisti. Da giornalista sono preoccupata dall’ambiente in cui ci ritroveremo in termini di libertà di parola dopo la guerra”.
Questa descrizione di Zelensky, decisamente lontana dall’immaginetta sacra venduta a reti unificate, ovviamente è stata immediatamente inghiottita dal silenzio. Puff! Sparita, smaterializzata. Per me è ovvia la distinzione tra aggressore e aggredito, ma, accidenti, vorrei anche chiedermi che democrazia è e che democrazia c’è in Ucraina, in un mondo in cui la qualità delle democrazie in generale peggiora di continuo e in cui incombono nuove e subdole forme di totalitarismo. Putin è un satrapo ed è l’aggressore, ma Zelensky non è un santo e con Putin fino a qualche tempo fa ci hanno fatto affari tutti. E vogliamo dirlo o no che le questioni attinenti democrazia e rispetto dei diritti umani passano sempre in secondo piano rispetto agli affari? Devo condannare l’aggressione putiniana? Certo che la condanno, ma nessuno può chiedermi di rinunciare a pensare, ad analizzare e di portare il cervello all’ammasso dell’ennesima narrazione di regime. Io so che quando Krusciov provò a piazzare delle basi per il lancio di missili nucleari a Cuba, il presidente Kennedy fece quel che fece e arrivammo sull’orlo dell’olocausto nucleare. Io che da sempre sono un antitotalitario vero e mi batto contro ogni forma di totalitarismo e vorrei che all’Onu affiancassimo una organizzazione mondiale della e delle democrazie, dico, però, che in questo mondo con le sue logiche geopolitiche qualcuno avrebbe dovuto evitare certe provocazioni. La Russia di Putin per i miei standard non è una democrazia e in Russia, lo ricordo a me stesso, hanno ammazzato una giornalista come Anna Politkovskaja. Ma ciò detto, si potrà pur dire che in un rapporto Osce del 15 aprile 2016 si afferma che il Battaglione Azov si è macchiato di crimini contro l’umanità? In mezzo a tanto bianco e nero forse dovremmo prestare attenzione anche a qualche “sfumatura”. Così come dovremmo aver ben presente il monito di Dwight D. Eisenhower sui rischi connessi al complesso militar-industriale. A proposito, come mai nessuno ha proposto di far pagare gli extra profitti anche ai produttori di armi? No, non citerò un grande film italiano come “Finché c’è guerra, c’è speranza”, ma dico che, fatti tutti i distinguo che vanno fatti, occorre provare anche ad essere costruttori di pace e lo dico avendo ben presente il monito di Julien Benda: “La mistica della pace, proprio come quella della guerra, può uccidere del tutto, in coloro che ne sono afflitti, il senso di giustizia“. E ancora, potrò ricordare a me stesso che ad oggi nessuno ha processato Bush e Blair per le bugie che son servite a giustificare l’invasione dell’Iraq? E se lo dicessi qualcuno avrebbe la faccia di bronzo di definirmi filo-Saddam? E no, io che non sono un pacifista a babbo morto, mi sono sempre battuto per la libertà e la democrazia e contro una realpolitik che quotidianamente crea i presupposti per futuri disastri. Lasciatemi aggiungere che da uomo, da appartenente a questa specie umana da poco uscita dalle caverne, piango tutti gli uomini che oggi sono solo carne da cannone. C’è un grigiore in giro che spaventa. Occorre cambiare spartito.

Peraltro, anche alle questioni interne vitali, ampiamente percepite dai cittadini e dagli operatori economici, come il problema energetico/caro bollette, le inesistenti politiche occupazionali, il sempre più precario e privatizzato sistema sanitario nazionale, il recupero dell’evasione fiscale attraverso l’aumento del peso fiscale su chi non evade, ecc., la politica italiana sembra preferire le questioni linguistiche sull’adeguato uso dei generi, ovvero alcuni temi riconducibili ai “diritti civili” ma trattati troppo spesso con evidente finalità strumentale, elusiva di altri temi. Perché l’informazione giornalistica, quasi completamente, rilancia questo strabismo politico, piuttosto che stimolare e pungolare governo e amministratori con il disagio e la sofferenza delle persone reali?

C’è una sinistra radical-chic e una politica lontana anni luce dai problemi reali del Paese e della gente, dalla quotidianità di chi non riesce ad arrivare non alla terza, ma alla seconda settimana del mese. Trovo insopportabili coloro che parlano di “diritti civili” e dimenticano di parlare di giustizia sociale e di diritti sociali che sono diritti civili. Non sopporto certi farisei che si riempiono la bocca parlando della Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo, ma di quella Dichiarazione dimenticano articoli importanti quali gli articoli 22-23-24 e 25. Quell’articolo 25 che recita: “Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di perdita di mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà”.
Viviamo inconsapevolmente in un mondo in cui la grande finanza sta letteralmente divorando l’economia, le nostre vite e le nostre democrazie, che sono sempre più “democrazie reali”.
Mentre la “mano invisibile” del mercato e del mercatismo ci prende a schiaffi e a calci nelle parti basse, veniamo distratti da dibattiti surreali.
E magari non ascoltiamo voci altre come quella di Giuseppe De Marzio, che nel suo “Anatomia di una rivoluzione” scrive: “Il diritto pubblico e le Costituzioni hanno in un primo momento limitato il potere delle multinazionali e dell’economia nei confronti del lavoro e dell’ambiente. Ma la crisi esplosa nel 2007 e le politiche imposte dalla governance attraverso la Bce hanno cambiato le cose, facendo precipitare una gran parte del continente nella crisi del cosiddetto “debito sovrano”. Grazie alla continua minaccia del default o del fallimento, esercitata abilmente dalle agenzie di rating e dalle pressioni della Bce sui governi nazionali, la bilancia attuale appare completamente spostata dalla parte delle lobby, delle grandi banche e dei grandi interessi finanziari”.
Personalmente mi sento orfano, orfano di una economia sociale di mercato.
Qualche giorno fa ricordavo a me stesso quel che ebbe a dire un giudice della Corte Suprema Usa: “Il governo degli Stati Uniti ha mutato la sua natura da governo dei cittadini a governo delle corporation”.
C’è un’altra guerra in corso e si combatte senza missili e mine ed è la guerra che quotidianamente viene combattuta contro comunità, persone, contro chi produce e chi lavora, contro chi è povero e si ritrova sempre più povero.

Proprio ieri, partecipando come testimone ad un evento politico, mi ha colpito una affermazione fatta dall’ex ministro della Transizione ecologica, Sergio Costa, che suonava approssimativamente così: “Voi non ne avete idea, ma quelli che stanno in Parlamento ragionano con una logica interna, un modo completamente diverso da quello della realtà esterna al Parlamento. Non dovrebbe essere così, ma è così”. Nei tuoi articoli mi sembra che tu, sia quando intervisti testimoni professionalmente importanti (sulle fonti energetiche, sulle questioni sanitarie, ecc.) che quando dai la voce ad artigiani e a piccoli operatori economici, cerchi all’opposto di far rilevare quel mondo vero ed umano, quella realtà esterna ai pensieri e alle azioni della gran parte dei politici professionali. Perché?

Intanto direi che provo a fare una cosa che è indispensabile: ascoltare! Occorre ascoltare e ascoltare anche la pancia, gli umori e i malumori del Paese. Se continuiamo solo a cavalcare e alimentare odio e rabbia non andremo lontano. Così come non andremo lontano continuando a costruire edifici senza fondamenta e se continueremo a non interrogarci su quanto oggi le nostre istituzioni siano adeguate a fare da contraltare a poteri transnazionali o a quello che qualcuno definisce “deep state”. Io sono e resto anche un socialista ben ancorato a certe parole come quelle pronunciate da Gaetano Salvemini: “Ci chiameremmo socialisti e socialdemocratici, dato che ameremmo lavorare alla costruzione di un assetto sociale, nel quale i diritti di libertà siano integrati da un minimo di benessere e di sicurezza per tutti, senza il quale minimo, né può sorgere il desiderio di libertà, né i diritti di libertà possono essere di regola praticati”. Quando parlo con un artigiano, che si alza alle due di notte per farmi trovare il pane, sto parlando con chi è lontano anni luce da certe alchimie finanziarie che decidono i destini del mondo. La finanza è indispensabile, per dirla con il banchiere gesuita Gael Giraud, ma “lasciata a sé stessa, essa può fare molti danni. Soprattutto quando prende il sopravvento il «feticcio della liquidità», cioè la patologia dei mercati finanziari che sono interessati solo ai rendimenti di breve periodo”.
Io dico che avremmo bisogno di una svolta culturale che preluda a una nuova economia; un’economia che torni ad essere al servizio dell’uomo.

Infine, una domanda sicuramente dolorosa. Quanto costa essere un giornalista indipendente?

Avrei voglia di rispondere chiedetelo all’editore di Radio Radicale e a quelli che mi hanno licenziato; chiedetelo a chi mi ha detto che “Ho alzato troppo il tiro”. Quale tiro? Sapete che c’è? Lo ammetto “ho alzato il tiro” per difendere come ho sempre fatto diritto, diritti, stato di diritto, Costituzione, democrazia e diritto alla conoscenza. Ho pagato un costo? Alcuni non immaginano nemmeno lontanamente quanto sia stato alto.

adminlesociologie

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2 thoughts on “Intervista a Maurizio Bolognetti sulla informazione al tempo della guerra

  1. Intervista veramente interessante per temi affrontati e per la lucidità e oggettività di ragionamento, che da sempre appartengono a Maurizio, un giornalista vero ,come pochi

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