Rubare ai poveri per dare ai ricchi
di Maurizio Bolognetti
Sfoglio le 264 pagine del rapporto INAPP (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche), intitolato “Lavoro e formazione: l’Italia di fronte alle sfide del futuro”, e avrei voglia di commentare che il futuro questo Paese lo sta seppellendo; che il futuro di milioni di giovani è un futuro senza futuro, fatto di precarietà e sfruttamento. La lettura mi restituisce la fotografia di un Paese malato, in cui chi sgobba per meno di 4 euro l’ora o per un full-time pagato come part-time è costretto anche a sorbirsi le prediche di chi non capisce il dramma di coloro che devono scegliere se pagare l’affitto e le bollette o sfamare se stessi e le proprie famiglie.
Leggo i dati snocciolati dall’INAPP e le tabelle mi restituiscono la fotografia di un disastro, la rappresentazione di un Paese sempre più precario e sempre meno giusto.
Chissà perché, mentre leggo, mi viene in mente il grande Massimo Troisi e “L’Annunciazione”, una delle più riuscite scenette de “La Smorfia”: “Ma possibile che a Napoli solo lavoro non se ne trova, sempre con un’altra parola vicino?”.
Dati, numeri, vite in bilico, lavoro senza dignità . Dei nuovi contratti attivati nel 2021, segnala l’INAPP, sette su dieci sono stati contratti a tempo determinato e il “part-time involontario” ha riguardato l’11,3% dei lavoratori a fronte di una media OCSE del 3,2%.
La percentuale di lavoratori poveri nel nostro Paese è pari al 10,8% del totale degli occupati; tradotto, più di un lavoratore su dieci lavora per fare la fame.
Siamo l’unico Paese dell’area OCSE nel quale, dal 1990 al 2020, il salario medio annuale anziché aumentare è diminuito (-2,9%).
Quelli dell’INAPP parlano di “trappola della precarietà ” e non potevano scegliere una definizione più appropriata. Trappole per topi, per nuovi schiavi immolati sull’altare del regresso e di un fascio-capitalismo che ingoia diritti e dignità .
Lo chiamano “lavoro atipico”, volendo intendere “tutte quelle forme di contratto diverse dal contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato full time”. A leggere le cifre, però, più che “atipico”, in Italia questa tipologia di lavoro sembra che stia diventando sempre più “tipica”, basti pensare che oggi essa rappresenta l’83% delle nuove assunzioni.
Nuovi poveri, nuove povertà , un Paese che invecchia e affonda, ma a quanto pare il problema di qualche politico è una misura di welfare: il Reddito di cittadinanza.
Li ascolto e mi chiedo perché per lor signori parlare di “welfare to work” (ammesso che sappiano cosa sia) si traduca nel sottrarre sostegno a chi è in difficoltà . Perché non sento parlare del diritto a un lavoro dignitoso, perché non sento parlare di coloro che vengono quotidianamente sfruttati e malpagati?
Hanno ragione le Acli quando affermano: “Crediamo sia un grave errore l’abolizione del Reddito di cittadinanza, una misura che sicuramente ha bisogno di correzioni ma che aiuta e ha aiutato, in un momento complicato, milioni di cittadini. Non possiamo dimenticare che in Italia i poveri assoluti si trovano anche all’interno di famiglie con una persona occupata, e che tanti lavoratori percepiscono uno stipendio così basso che non è sufficiente a garantire una vita dignitosa a loro e al nucleo familiare a loro carico”.
Lo confesso, sono orfano di una “economia sociale di mercato” e mi è drammaticamente chiaro che stiamo procedendo a ritmo spedito verso una societĂ dove le parole “giustizia sociale” suonano sempre piĂą come una bestemmia e in cui Robin Hood viaggia a braccetto con lo Sceriffo di Nottingham per rubare ai poveri e dare ai ricchi.
Forse sarĂ per questo che provo a leggere e a rileggere le parole di quel “pazzo malinconico” di Gaetano Salvemini: “Ci chiameremmo socialisti e socialdemocratici, dato che ameremmo lavorare alla costruzione di un assetto sociale, nel quale i diritti di libertĂ siano integrati da un minimo di benessere e di sicurezza per tutti, senza il quale minimo, nĂ© può sorgere il desiderio di libertĂ , nĂ© i diritti di libertĂ possono essere di regola praticati“.