La Storia, la disciplina, la Campania, la didattica – Intervista a Silvio De Majo. Di Sergio Mantile

La Storia, la disciplina, la Campania, la didattica

Intervista a Silvio De Majo 1

di Sergio Mantile

D. Relativamente alla vastità temporale e alla numerosa gamma di eventi e culture che sono oggetto della sua disciplina, lo storico è esposto al rischio di molti scienziati che, essendo particolarmente specializzati in un segmento minimo della propria materia, finiscono per perdere la visione d’insieme di essa? Oppure, al contrario, può trarlo da tale rischio il vantaggio di una comparazione continua tra contesti, epoche e tratti socio-culturali diversi?

R. È vero che lo storico, soprattutto se si occupa delle cosiddette microanalisi, può perdere la visione d’assieme dei grandi fenomeni culturali, sociali, economici, politici in cui il segmento di cui si occupa si inserisce. Ciò però non dovrebbe mai avvenire: il contesto non deve mai essere perso di vista. Se ad esempio si ricostruisce la storia dell’industria di un’area territorialmente limitata, ad esempio un pezzo del nostro Paese, va considerato il contemporaneo complessivo andamento industriale italiano, a sua volta inquadrato nel contesto internazionale. Lo si può fare anche sottoponendo a comparazione l’area indagata mediante una documentazione d’archivio originale con un’altra già nota e analizzata da un altro studioso.

D. I suoi numerosi studi di storia economica testimoniano della varietà di attività industriali e proto industriali secolari della Campania. A suo avviso, che cosa è mancato a tali attività per renderle sistematiche e continuative nel tempo?

R. Non è facile rispondere a questa domanda. I motivi per i quali un ciclo industriale si chiude possono essere tanti: ad esempio la riduzione o il crollo degli aiuti dello Stato, un calo interno o internazionale della domanda dei generi prodotti, o delle produzioni e/o distribuzione delle materie prime necessarie e così via. Sempre conta l’incapacità di rispondere adeguatamente, da parte dei governi, dei ceti imprenditoriali, delle comunità locali (dirigenti, tecnici, operai) a questi o ad altri fattori negativi; cosa che non vale solo per la Campania, ma può avvenire, anzi è avvenuto – a seconda dei settori produttivi e dei momenti storici – anche in tante altre ben delimitate aree italiane o europee. Di esempi se ne potrebbero fare tanti. Qui basterà accennare al crollo della produzione di acciaio in Europa, sostituito dalla plastica o dall’acciaio prodotto nelle aree del cosiddetto terzo mondo. In Europa non chiude solo Bagnoli, ma anche altri importanti grandi siti italiani, francesi, inglesi, tedeschi. Se una differenza c’è stata ha riguardato la risposta dei governi e/o delle autorità locali nell’utilizzazione alternativa dell’area. Ma questo è un discorso che ci porterebbe assai lontano.

D. Oggi, quella tradizione economica lungo quali direttrici – e attraverso quali eventuali tipologie di investimenti – potrebbe essere convogliata per uno sviluppo equilibrato (integrato) e duraturo dell’economia regionale?

R. Questa domanda è ancora più difficile. Sicuramente si può fare riferimento a quello che è già avvenuto in oltre due secoli di storia dell’industria campana. Non raramente una realtà locale, che in passato aveva cercato in una produzione industriale o protoindustriale l’alternativa ad una agricoltura povera, era riuscita a riconvertirsi in campo industriale. Possiamo pensare, ad esempio al boom dei caseifici nella Piana del Sele, che fa seguito al crollo dell’essiccazione del tabacco, che fino al 1950 circa era l’attività principale dell’area; esempio virtuoso di integrazione tra agricoltura e industria (con una componente non secondaria di lavoro scientifico per sperimentazioni e innovazioni). La produzione della foglia di tabacco e la sua lavorazione sono sostituite dalla produzione del latte di bufala e dalla sua lavorazione, altro esempio di integrazione agricoltura-industria. Un altro tipo di risposta non è quello di spostarsi su un altro settore, ma insistere, con numeri molto più bassi, ma di grande qualità, nelle produzioni tradizionali. È quanto avvenuto ad esempio per i pastifici di Gragnano. Diminuiti di numero, ma capaci di ottenere un riconoscimento europeo (IGP) e di mercato di grande importanza. È la risposta della qualità quando viene meno la quantità.

D. A suo avviso, le tendenze socio-culturali omologatrici del capitalismo globalizzato trovano qualche forma di opposizione nella persistenza di tratti distintivi della cultura campana, e segnatamente napoletana, quali ad esempio la tendenza anarcoide dell’indole sociale o il perdurare di una propensione magica del suo pensiero?

R. Non so in quale misura si possa generalizzare su un’indole sociale o su una propensione magica oppure su altri tratti distintivi della cultura campana verso le tendenze del capitalismo. Sono tanti gli esempi di nicchie produttive di successo sia nel passato, sia al giorno d’oggi che hanno sconfitto, per così dire, le propensioni antitetiche. Pensiamo alla capacità che hanno avuto e hanno tuttora alcune grandi aziende di sartoria maschile o di oreficeria ad inserirsi nella domanda globale del lusso.

D. Sicuramente, economia, sociologia, antropologia, geografia, filosofia e scienza politica sono discipline dalle quali lo storico attinge dati e informazioni, e con alcune delle quali sviluppa spesso un rapporto professionalmente privilegiato. Nel suo lavoro, i contenuti di quali discipline tende ad utilizzare maggiormente?

R. Nel mio lavoro ho attinto, per la verità senza andare troppo in profondità, a molte discipline di supporto. In particolare all’economia industriale e alla demografia; ma in quest’ultimo caso solo per la distribuzione in ambito locale delle classi sociali. Ho sempre tenuto a freno qualsiasi tentazione di far oltrepassare i limiti specifici e di trarre da uno studio storico, ben delimitato nel tempo e nello spazio, considerazioni scientifiche che attengono ad altre discipline, come ad esempio la filosofia o la scienza politica.

D. C’è un uso politico della storia? E, in tal caso, come si può contrastare o quantomeno arginare tale uso improprio?

R. Sicuramente si può fare un uso politico della storia e la cosa non è di per sé un problema, purché non si tratti di un uso politico scorretto, deformato. Voglio dimostrare qualcosa e laccio ricorso a fatti storici mal interpretati o addirittura deformati per affermare la validità delle mie argomentazioni. Qui al sud l’esempio più eclatante è l’uso che ne fa una storiografia, fortunatamente salvo eccezioni fuori delle Università, che potremmo definire filoborbonica. Attribuire i mali di oggi del Mezzogiorno all’Unità d’Italia di 120 anni fa significa non rendersi conto delle grandi cesure che sono intercorse in questi 120 anni e hanno trasformato profondamente tutto: il Sud, l’Italia, l’Europa, il mondo. A ciò si aggiunga che non è vero che il 1860 sia stato il guaio che i filoborbonici di oggi gli attribuiscono, facendo molto spesso ricorso a dati inventati, oppure a dati non contestualizzati, non adeguatamente confrontati, come si diceva all’inizio di questa intervista, con il resto del Paese o con l’economia globale, perché la globalizzazione non è un fenomeno di oggi, come si potrebbe pensare, ma ha inizio nell’800.

D. La storia è una materia che può essere tanto intrigante – come racconto di fatti che hanno precorso e determinato il presente – e tanto noiosa, proprio in quanto narrazione di eventi lontani dai fatti familiari, che definiscono vistosamente e quotidianamente la realtà contingente. Come docente, utilizza tecniche e modalità specifiche per rendere la materia interessante?

R. Come docente per rendere più intrigante il racconto storico nelle mie lezioni facevo costantemente esempi e confronti con l’oggi e con l’immediato ieri, con la realtà di tutti i giorni. Questo era molto possibile soprattutto presentando fatti economici generali, che possono avere o hanno avuto ripercussioni con le loro comunità, o con le generazioni precedenti delle loro famiglie, se non proprio con quelle presenti. Talvolta anche forse forzando il rapporto in modo deterministico, ma utile per far capire che tutto quello che ci accade ha le sue radici nel passato e che per comprenderlo bisogna conservarne memoria; una memoria non piatta, ma per così dire analitica.

1 Docente di Storia economica per le innovazioni tecnologiche e Archeologia industriale per i corsi di laurea di Economia e commercio e di Scienze del turismo ad indirizzo manageriale presso il Dipartimento di Scienze economiche e statistiche

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