Caos sociale della città di Napoli e la poesia
di Antonio Spagnuolo
Molto difficile potrebbe apparire il considerare contigui la poesia ed il sociale, excursus che si affaccia sull’abisso di un universo sconfinato al quale appartengono le particelle di un habitus operandi e le fiamme di quella fondamentale capacità immaginativa in grado di compiere il salto che porta la ragione oltre se stessa, scavando dentro di noi, per flettere la parola e rincorrere le evoluzioni delle presenze. In bilico tra conoscenza e ignoranza, tra sfide e cadute, l’individuo si trova di fronte alle aggregazioni del sociale, in un rapporto tra universo quotidiano e capacità di comunicare con la scrittura alta.
La cultura non è acquisita biologicamente; essa deve essere trasmessa di generazione in generazione. E questo processo avviene prevalentemente nella SOCIALIZZAZIONE, attraverso la spezzettatura che riesce a ricomporre il macrocosmo necessario alla evoluzione. Senza cultura, le persone sarebbero disorientate.
Che la città di Napoli sia stata ed è da sempre un vero caos è una realtà che ha conquistato il mondo intero. Vuoi per le origini plurietniche del popolo, vuoi per le differenze economiche, vuoi per le capacità espressive, vuoi per le impurità morali, e per i frutti delle negatività economiche della plebe, e per le variegate componenti che oscillano tra stupore, serenità, saggezza, esperienze ataviche, ritmi tradizionali, risalta quotidianamente il contrasto sottile di una elucubrazione scintillante che apre al canto, sia come musica che come ritmo poetico.
La canzone napoletana è immortale ed è sempre sospesa a una tentazione metafisica più che materiale, a una invocazione esistenziale che veicola alla parola capace di significare. Così pure l’impegno della scrittura poetica, al di là di ogni elucubrazione razionale, cerca di esprimersi vivendo nella sua pienezza e nel rifiuto di spigolose allusioni.
Gli elementi che costituiscono una cultura variano anche per la città di Napoli nel tempo e nelle società. Operando delle scelte sugli elementi da considerare importanti, che includono i valori e le credenze, l’insieme delle conoscenze su come comprendere il mondo e orientarsi in esso, e gli standard o le “norme” inerenti al comportamento ritenuto appropriato la padronanza di metodi e tecniche che vanno scelte secondo la natura dell’oggetto e che possono andare dalle statistiche all’analisi delle scelte metriche e linguistiche. Non sembra facilmente praticabile un discernimento tra impegno sociale e critica letteraria, spesso perché il testo metaforico ha offerto spunti di riflessione e materia di approfondimento per inquadrare e chiarire, anche in prospettiva didattica, temi e concetti tipici della sociologia.
Quello che accende la curiosità del critico è la constatazione di un rinnovato interesse per la creatività per la specifica questione della scrittura e della sua capacità di comunicare e di interpretare il mondo sociale al di fuori di ogni relazione conflittuale.
Tra le nuove voci ascoltiamo cosa dice Eugenio Lucrezi, poeta che ogni sabato nella sua rubrica tra le pagine de “la Repubblica” presenta con severità le composizioni dei giovani autori.
“Il caos sociale della città di Napoli andrebbe misurato, per verificare se è un caos, e nel caso analizzato, per comprendere se ha radici e ricadute sociali. Misurare le cose è lavoro geometrile e statistico, presuppone l’individuazione e l’utilizzo di indicatori capaci di dare conto di realtà definite sul piano urbanistico, sulla presenza e la fruibilità di strutture e di servizi, sulle aspettative della gente, sulle possibilità reali di aggregazione, di contatto e di comunicazione tra gruppi di cittadini (……) Napoli, d’altro canto, è una metropoli dalla storia eccezionalmente antica e stratificata, è sempre stata un crocevia di civiltà e un crogiuolo di avventure civili e artistiche, non meno che di rassicuranti oleografie, di pigrizie culturali. Un caos, insomma; come ogni organismo vivente e vitale, per il quale l’omeostasi non è altro che l’illusione di un momento. E poi, ogni città ha diritto alle sue pigrizie e alla sua oleografia, che non fa male a nessuno. Nonostante le sue stanchezze e le ricorrenti pennichelle cui si abbandona, Partenope è tuttavia una realtà in crisi perenne, vivaddio: divampa ogni volta per una febbre tutta sua, che poi cade per crisi, appunto, in attesa della prossima in arrivo. E poi: la narrazione della città caotica è convenzionale, andrebbe accantonata e sostituita da una diversa percezione della bellezza, che a Napoli è straordinariamente diffusa, nascosta, mimetizzata. Bellezza paesaggistica, architettonica, antropologica; teatrale, pittorica, musicale. Napoli è insomma un irenico caos, abitato da muse sfrontate e impertinenti. Ai poeti il compito di avvistarle, inseguirle, interrogarle.”
Fortunatamente gli anni ‘50 e ‘70 del secolo scorso segnano una vigorosa crescita dell’intellettuale, che cerca di allontanarsi dalle camarille, in una evoluzione rapida di pensiero e di scrittura, con le migliori energie tese a cooptare occasioni e dibattiti in una ferma sintesi di cultura immersa nella società. Un punto di riferimento rimane ancor oggi la rivista “Altri termini” fondata e diretta da Franco Cavallo e alla quale collaborarono con interventi significativi i poeti napoletani Stelio Maria Martini, Franco Capasso, Felice Piemontese, Ugo Piscopo, Ciro Vitiello, Carlo Felice Colucci, Luigi Compagnone, Wanda Marasco, Mariano Baino, Alberto Mario Moriconi, e il sottoscritto. Ciascuno personalmente e in vario modo impegnato con scritture che hanno sfiorato tematiche tutt’altro che secondarie in un periodo storico nel quale era pronosticabile l’aumento esponenziale di strategie politiche e di pressioni polarizzanti, o di elucubrazioni volte alle variazioni pubbliche e private.
Di quegli anni è “La livella” di Totò, il principe Antonio De Curtis, che con garbata delicatezza cerca di mettere alla pari un blasonato ed un netturbino. E ancora “Vincenzo De Pretore” di Eduardo De Filippo, che con poetica narrazione coinvolge socialmente finanche il Paradiso.
Lo scenario culturale si distende attualmente sulle pieghe di una vera e propria cascata di pubblicazioni, dove l’io lirico cerca un suo hortus conclusus, e dove l’azione quotidiana evapora molto spesso nel semplice sussurro melodico, tralasciando involontariamente l’impegno di affrontare le esitazioni, le incertezze, i dubbi di avvicendamenti sociali.
Rita Felerico, agguerrita poetessa e visceralmente impegnata nel sociale suggerisce il pensiero che incide: “Sentirsi sradicati nella città dove una volta l’abitare e il vivere trovavano il loro senso, dove anche gli angoli dei luoghi più sconosciuti, attraversando lo sguardo, offrivano segni di una convivenza e di un immaginario condiviso, è forse diventato sentimento comune. Lo sradicamento. Le città stanno trasformandosi, si confondono i livelli del tempo e il ritmo lento che appartiene all’essere cittadini / abitanti si sta perdendo e ci pone tutti su un medesimo livello di percezione. Non è solo il traffico, il rumore assordante, la rinuncia a provare serenità nei movimenti utili per raggiungere gli spazi, gli impegni che ci attendono: scuole, uffici, casa, teatri, cinema. Abbiamo smarrito l’ identità, le capacità percettive: la nostra città, Napoli, somiglia ad una qualsiasi altra città/metropoli dell’oggi, ingarbugliata nella folla dei turisti, nel caos dei fast food, nella distrazione da ciò che ci circonda, dalla quale ci si difende con le ‘cattive’ immagini: foto dai cellulari, selfie, come se nulla potesse essere ‘fermato’ nella mente e nel cuore se non con una immagine di per sé fragile, che rende l’idea ma non la insegue (non parlo di fotografia ovviamente). La poesia resta ai confini, di quello che non è un viaggio, di quello che non è un abitare, di quello che non è l’incontrarsi e il dialogare. Ma resta. A Napoli. E forse questo è importante in un momento di dismissione di sapienza e di valori. La poesia resta, attende nel caos lo spiraglio per esplodere, per venire allo scoperto, per dire con la sua forte parola ciò che è, che avviene, che siamo. La ritroviamo nei gesti ansiosi di difesa, nei tentativi di arginare ciò che ci vuole invadere. La poesia resta e dalla strada, in quella che è l’atmosfera compatta e inquinata di tutti, conquista i fogli bianchi di giovani musicisti, artisti, attori, poeti, studiosi che accolgono la sfida e che coraggiosamente parlano.”
La poesia quando diviene testo diviene immediatamente forma e disposizione per un concetto in sintonia con l’ambiente che ci circonda. Una recezione mentale e nello stesso tempo sentimentale e riflessione dell’insieme che converte subito le poderose esigenze e le interazioni della civiltà.
Giuseppe Vetromile, poeta che si prodiga in maniera veramente eccellente in convegni, riunioni, interventi, afferma che: “La città oggi è un’entità sociale sempre più sfrangiata, parzializzata, frantumata. E Napoli non è da meno. A mio giudizio, la cultura, il desiderio di condividere momenti creativi, e in particolare la poesia, possono anche nella nostra città costituire un ottimo collante sociale per tenere insieme i pezzi di questa umanità deflagrata.”
Viaggio galattico, prodigiosa avventura, lo scrittore non disdegna di scrutare all’interno di ogni realtà, e nella semplice pluralità dei significati cerca quell’innesto planetario che ogni prospettiva oggettiva o frontale promana dal fluido magico del vissuto. Minuziosi slittamenti e sublimazioni vacillano in queste creatività e nel riverbero del forte desiderio di partecipazione sociale nasce la scrittura del contemporaneo, anche per numerosi giovani napoletani. Infinite variazioni sul tema, in riferimento a fatti di evoluzione o nella tensione verso le formule che moltiplicano le discipline, il variare dei registri stilistici apre la ricerca quasi a panorama antologico.
Purtroppo da più parti, tra gli addetti ai lavori, ci si lamenta che: “il clima umano e culturale penoso in cui versa il popolo dei poeti di questa città non dà respiro degno di seguito.
Né, si può illudere, che parlarne serva a cambiare le cose. Meschinità, invidie, guerriglie nascoste e ignoranza hanno radici ormai cementificate.
Se poi ti permetti di fare una ricerca di qualità sei scansato come un appestato… E allora, niente: ci si rivolge altrove”. Ben facendo intendere che non sempre le associazioni sono aperte ad un colloquio che possa diventare universale.
Il “persuaso” vive in una realtà elastica, perché mettendo continuamente in discussione se stesso con la precisa consapevolezza della finitudine dell’atto poetico, accelera il tempo nell’ansia di una stabilità più certa della permanenza della policromatica creatività individuale.
Ascoltando tra i sussurri di qualche poeta ecco cosa scrive Francesco Filia, impegnato anche egli nel sociale: “Dire Napoli in poesia può essere facilissimo o quasi impossibile, e questa contraddizione è data dalle stesse contraddizioni irrisolvibili della città stessa. Napoli è stata definita da Curzio Malaparte ne La pelle come la città più misteriosa d’Europa, perché essa non è una città moderna ma è un relitto del mondo antico, è l’unica che è sopravvissuta, vivente, al naufragio della civiltà antica. Quindi il caos che caratterizza Napoli, non è solamente qualcosa che ha a che fare con cause economiche e sociologiche, ma è costitutivo della sua storia, delle sue stratificazioni e del suo essere ancestrale. Dire Napoli, se non si vuole fermarsi all’oleografia o a una dimensione nostalgica-sentimentale, necessita un corpo a corpo serrato che coinvolge ogni fibra dell’esistenza. Ma Napoli, come per le divinità, non può essere guardata direttamente, pena l’accecamento o la follia. Il corpo a corpo è possibile se si prendono delle precauzioni, che colgano l’essenziale attraverso uno sguardo laterale, altro, eccentrico, che aprano una breccia nelle sue mura tufacee. Napoli nel suo continuo scorrere magmatico richiede di essere affrontata in un assedio, ma al tempo stesso è essa stessa ad assediarci in una stretta mozzafiato.
In questi anni, nei miei tentativi di dire la città in cui sono nato e vivo, mi sono accorto, ex post, di aver adottato una strategia di ‘sospensione’, nel senso greco del termine, di epochè. Nei tre poemi che le ho dedicato, il punto di vista scelto è sempre stato un punto di vista eccentrico: l’idea di ‘margine’ come lateralità periferia ne Il margine della città, l’evento atmosferico unico ed eccezionale della neve in città ne La neve e l’evento di un giorno, un corteo che attraversa la città e la sconvolge momentaneamente, ne La zona rossa. Questa strategia, se così si può chiamare, mi ha permesso di cercare più a fondo, di cogliere un punto di vista sulla città e approfondirlo: una parola che non si offra come rimedio a ciò che rimedio non esige. Non so se ci sia riuscito, ma è stato un tentativo che ha cercato di dire senza decorare da un lato e di mostrare senza eccedere e violentare dall’altro. È uno dei tanti tentativi che la nostra città provoca, accoglie e trattiene in sé, di più mi sembra impossibile chiedere.”
Antonio Spagnuolo*
Nato nel 1931, poeta, tradotto in più lingue, e saggista; dirige in rete il sito Poetrydream dedicato alla poesia contemporanea.