La cultura offesa, profanata
Di Luciano Scateni
Suscita rabbia, sgomento, costernazione l’uso illecito della parola ‘cultura’, ignobile pretesto che ha indotto il pubblico ministero a chiedere l’assoluzione dell’ex marito di una donna del Bangladesh che lo ha denunciato per violenze fisiche e psicologiche. Si è opposto il giudice per le indagini preliminari. Francesco Prete, Procuratore di Brescia, sede del processo. La sua incredibile motivazione per chiedere che sia assolto: “I comportamenti dell’imputato sono il frutto di un impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge”. Ecco, si deve lasciare agli organi della magistratura la decisione sulle legittimità di un giudice del genere a gestire il delicato ruolo di Procuratore. Appartiene a tutti noi il diritto di impedire che per cultura si possa intendere la libertà di insultare e picchiare mogli, figlie, sorelle. Divenuta madre di due bambine, la donna è stata costretta a lasciare gli studi delle superiori, segregata in casa per anni. Anni di insulti e botte, con la minaccia di essere riportarla in Bangladesh. Nel 2019 la vittima ha trovato il coraggio di denunciare, un coraggio che potrebbe non consentirle di essere per sempre una donna libera. Come fa un rappresentante della giustizia ad alto livello a legittimare la violenza come ‘normalità’ in qualunque luogo del mondo avvenga? Ecco, per un episodio oltre il dramma, che delimita i confini tra giudice e imputato, conta di impugnare l’assoluzione dell’energumeno denunciato dall’ex moglie, ma non meno l’impedimento attuale e futuro a riconoscere comportamenti da cavernicoli come espressione di cultura lovale.
Costituzione italiana, articolo 3: tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione. A questa nobile formulazione ha corrisposto il modus vivendi di una donna di 34 anni, originaria del Bangladesh, ma cittadina italiana, arrivata nel nostro Paese con la famiglia quando aveva appena quattro anni e venduta a un cugino per 5000 euro, dopo la morte del padre, vittima di violenze fisiche e psicologiche per non sottostare al dispotismo del marito che le imponeva comportamenti propri del Paese di origine. Chi tutela questa cittadina italiana che ha disconosciuto le scelleratezze del Bangladesh e compressione delle libertà morali e materiali? Il processo dovrebbe concludersi nelle prossime settimane e c’è tutto il tempo perché giustizia sia fatta. La tesi di chi si oppone all’assoluzione: “Le violenze sono intollerabili per la vittima, cresciuta in Italia nella consapevolezza dei diritti che le appartengono e che l’hanno indotta a interrompere il matrimonio, a improntare la sua vita a canoni di italiana, a rifiutare il modo di vivere imposto dalle tradizioni del popolo bengalese e delle quali invece, l’imputato è protervamente assertore”.