Le dinamiche psichiche e psicofilosofiche dell’Arte in terapia: siamo tutti artisti senza saperlo

di Massimo Doriani

“Il sogno non è soltanto una comunicazione (magari una comunicazione cifrata), ma anche un’attività estetica, un gioco dell’immaginazione, che è di per sé un valore.”

MILAN KUNDERA

Ogni notte tutti, per quasi tutta la notte ci trasformiamo in videomaker e produciamo film di raffinatissima bellezza e intensità.
Leo Kanner, docente della Johnson Hopkins University di Baltimora, nel 1943 chiese al padre di un suo paziente che soffriva di quella che allora chiamavano dementia precox di descrivere tutti i comportamenti che presentava suo figlio. Da questa indagine trasse il termine poi divenuto noto come sindrome di autismo. Non approfondirò l’autismo, ma il fatto che questo ragazzino, in contrasto con le difficoltà di interazione e comunicazione sociale, era particolarmente dotato di capacità artistiche nel disegno e nella musica.
Non era l’unico ad essere in possesso di grandi doti artistiche e contemporaneamente portatore di disagio psichico, vi troviamo nella pittura Michelangelo Buonarroti, van Gogh, Andy Warhol, nella musica Mozart e Beethoven nella scrittura Anderson ed Orwell per citarne solo alcuni.
Quindi persone particolarmente problematiche con disturbi a volte anche gravi del comportamento possono avere spiccate doti artistiche. Come è possibile?
Dove ha origine da un punto di vista psichico l’esperienza estetica?
Dice Christofer Bollas dell’università di Buffalo in California:
L’esperienza estetica affonda le sue radici nel vissuto primario. È la madre che dà forma e trasforma l’esperienza interna ed esterna del neonato, prendendosi cura di lui in modi specifici, lo sfama, lo lava, lo abbraccia, lo sostiene, eccetera. Con la crescita, questo potenziale “trasformativo” viene poi riposto in altri oggetti, gli oggetti soggettivati, concreti o concettuali, investiti della capacità di promuovere un profondo cambiamento del Sé. L’esperienza artistica occupa in questo contesto un posto di primo piano”.
Una volta che ci siamo spostati sulle radici primordiali del processo psichico non possiamo non citare lo psichiatra italo argentino Silvano Arieti, con la sua idea di paleostrutture della mente, che sono degli aggregati primari di sensazioni, esperienze, immagini che creano contenuti psichici e che precedono le capacità di espressione linguistica. Il cosiddetto preverbale. Arieti teorizza questi aggregati definendoli l’esocetto per definire l’immagine interna del sé ed endocetto per definire l’immagine interna del mondo esterno.
Vediamo come la struttura fondante l’esperienza estetica nasce da qualcosa di molto primordiale ed è direttamente il frutto dei processi primari, quelli che reggono le formazioni e le dinamiche dell’inconscio. Quei processi che si adoperano a migliorare le condizioni di soddisfazione della psiche, che sono attivi nella formazione dei sintomi e nella produzione onirica.
Questa è la poiesis, la creazione di qualcosa che prima non esisteva.
Non è detto che questo qualcosa debba esistere concretamente, tangibilmente. E quando diventa tangibile ha già fatto un lungo percorso. Facciamo un esempio.
Chi non ha mai scritto una poesia nella propria vita. Ebbene tutti conosciamo quella sensazione che viviamo dopo quel periodo più o meno lungo nel quale dentro di noi si vanno rappresentando delle suggestioni, delle sensazioni, delle emozioni, non ben identificate ma che crescono e si compongono sempre più. Arriva poi il momento in cui ci sediamo e iniziamo a scrivere. Fermiamo ora l’attenzione tra la fine di quel momento in cui questo qualcosa cresce dentro di noi ed il momento in cui scriviamo.
È una fase magica, bellissima, anche se piena di ansia.
La sensazione è di integrazione. L’endocetto è completato e ben definito, nella sua indefinibile indefinitezza.
Preme per uscire e trovare forma nella concretezza. Ma cosa accade, cos’è che produce quel senso di benessere? È il processo creativo che rende intero l’individuo, il quale ha la sensazione di una psiche integra, di un tutt’uno nel quale può identificare se stesso. È una sensazione bellissima che dà piacere, forza e gioia.
La forza percepita dentro vuole uscire, concretizzarsi, partorire, nascere. Quando poi creiamo concretamente, cioè trasformiamo tutto ciò in qualcosa di tangibile, si attivano i processi secondari e l’opera nasce, la creazione prende forma, l’endocetto prende senso e diventa concetto.
Tutto ciò può anche non accadere. La forza che si era aggregata può non prendere nessuna forma, la poesia non viene scritta, il quadro non viene dipinto, l’endocetto non viene investito di senso, non diventa concetto, l’opera non nasce, muore dentro e col tempo scompare in un processo luttuoso.
Aggiungiamo a questa esperienza il vissuto gruppale e parliamo per esempio delle Arti musicali. Chi suona uno strumento conosce bene la sensazione che si prova quando suona un pezzo musicale che gli riesce particolarmente bene.
Conosce bene anche la sensazione di quando sa che quello è il momento in cui suonando il pezzo gli verrà particolarmente bene. È quello il momento in cui l’endocetto è maturo anche se il prodotto ancora non esiste.
Ma ora vediamo cosa accade se si lavoro in gruppo, in relazione con gli altri.
Provate a immaginare, ed alcuni ne hanno esperienza, cosa significa suonare in un gruppo musicale. Già abbiamo visto il processo psichico interno come si sviluppa quando siamo soli, ma quando l’esperienza diviene condivisa, nel momento in cui “entri” in quello che stai facendo, quando, per usare un termine in prestito allo sport, sei “in palla“, quando questo tuo sentire è condiviso dagli altri del gruppo divenendo un territorio comune e ti senti non più un solista, non più un membro del gruppo, ma ti senti essere il gruppo. Ebbene, in quel momento non sei più in gruppo, tu SEI IL GRUPPO. Sei tutt’uno con gli altri. Questa esperienza fusionale di appartenenza profonda, preverbale, inconscia, è anche uno dei motori della psicoterapia di gruppo, nonché uno dei risultati con i ragazzini autistici, ovviamente in quest’ultimi, anche solo accenni e brevi tracce di condivisione sono già un risultato importante.
In questi territori origina l’arte, una sorta di edificio le cui fondamenta risiedono nei processi primari. L’edificio poi si edifica nei processi secondari quelli che specificano il sistema preconscio/conscio, quelli che regolano e trasformano i contenuti dei processi primari rendendoli intellegibili, dandogli un senso, offrendo il luogo della formazione del significato.
Che approdi ad un prodotto grafico piuttosto che plastico, oppure a una coreografia o ad una sceneggiatura piuttosto che ad un testo musicale, il travaglio della creazione affonda sempre le sue radici direttamente nelle prime fasi del vissuto, in quel luogo dove la forma coincide con le vicissitudini della forma del proprio corpo e tutto ciò passando attraverso le caratteristiche qualitative delle cure materne, l’essere toccati, tenuti, cullati, carezzati, eccetera. Questa è la forma che si viene dando al mondo attraverso le prime relazioni con l’oggetto.
Il prodotto d’arte, ma anche una semplice esperienza artistica che rimanga solo potenziale, può stimolare l’espressione simbolica dei contenuti dell’inconscio e può essere intesa come il prendere forma di ciò che era informe. Un endocetto ed un esocetto evolvono in un concetto.
Quindi un prodotto artistico come, ad esempio un quadro, può configurarsi come un oggetto transizionale perché viene percepito come fuori di sé, ovviamente, perché il quadro sta davanti a sé, è un oggetto diverso dall’oggetto se stesso, è un’altra cosa, è decisamente fuori di sé. Ma nello stesso tempo, poiché viene investito di una parte molto intima di sé, diventa una parte del SE’, una parte interna e molto intima, tu non guardi il quadro che hai fatto, tu sei il quadro, il quadro ti guarda, se non ti piace, ti vergogni, il quadro si vergogna attraverso te. In questo modo l’immagine esterna diviene non solo un ponte tra le varie parti del sé e dà integrità, ma anche un ponte tra sé e gli altri.
Scusatemi ma non posso non citare Pessoa che rivedendo la sua Lisbona in rovine non solo non la riconosceva, ma non riconosceva neanche se stesso.

LISBON REVISITED (1926)

… Un’altra volta ti vedo,
ma, ahimè, non mi rivedo!
Si è rotto lo specchio magico in cui mi rivedevo identico,
ed in ogni fatidico frammento
vedo solo un pezzo di me
un pezzo di te e di me!

Lisbona è distrutta, le radici di Pessoa, la sua infanzia, il suo mondo è distrutto. Il Mondo intero per lui è distrutto, frammentato e lui non è più integro, non solo il mondo che lo circonda fuori di sé, ma lui dentro di sé è distrutto e spezzettato. Pessoa vede solo i pezzi di Lisbona, che non è più l’intera città, e in ogni pezzo vede solo un pezzo di sé non tutto se stesso e in ogni pezzo vede un pezzo di sé e di Lisbona, entrambi distrutti. Si è disintegrata l’identificazione magica in cui si era sempre rivisto identico.
Questa frase mi colpì talmente che nella mia casa di studente la scrissi sullo specchio rotto dell’armadio, dove vedevo la mia immagine frammentata mentre ero in una città non mia ed avevo difficoltà ad integrarmi.
Questo spazio indefinito non concreto, dell’endocetto, del mondo preverbale, attraverso l’opera d’arte diviene un veicolo con il quale si può comunicare, inconsciamente ovviamente, ma si può comunicare.
Nello stesso tempo diventa un territorio nel quale ci si può nascondere. Un territorio nel quale possiamo depositare ciò che non può essere espresso, o anche semplicemente ciò che non può ancora, essere espresso.
Siamo in quell’ambito che Bollas definiva “l’impensato noto“, quell’insieme di cose che potremmo chiamare un ambito inconsapevole ma noto, che al massimo possono diventare vaghe suggestioni che possediamo ma che non sappiamo di avere e nello stesso tempo ci governano.
Sono segregate nel mondo del non esprimibile, del non osservabile, o, nella migliore delle ipotesi, quando viaggiano nel preconscio sono quelle suggestioni che tutti hanno quando affermano: questa cosa la so, l’ho sempre saputa, ma non te la so spiegare, non saprei come descriverla.
Prima di proseguire in questa indagine nella natura psichica dell’esperienza artistica, facciamo una piccola digressione filosofica.
Ho da farvi una comunicazione: tutti dobbiamo morire.
Penso che questa informazione vi sia già stata comunicata da altre fonti. Ma non solo tutti dobbiamo morire ma, a differenza degli altri animali, ne abbiamo la consapevolezza. Gli esseri umani possiamo definirli, per dirla con Galimberti, animali morenti.
È questa la nostra ferita primordiale, una ferita che dà forma alla vita. La morte confina la vita in quell’ambito tra il caos e l’emozione e determina la consapevolezza segreta dell’inconscio.
Alla notizia che tutti dobbiamo morire mio nonno affermava: FORSE ANCH’IO.
Approfitto di questa battuta che ci può essere molto utile in questo momento. Una battuta umoristica, una battuta comica, e se è vero come è vero che la comicità è una forma di espressione artistica, se ampliamo il dibattito, possiamo considerare la battuta di mio nonno, il prodotto di una creazione artistica nel settore delle Arti drammatiche di tipo comico.
Qual è l’operazione che ha condotto mio nonno, quella di prendersi cura della ferita procurata dalla morte attraverso la bellezza, in questo caso l’umorismo.
La bellezza artistica possiamo definirla come un velo che copre la ferita primordiale, ma anche che cura quella ferita. Qualunque prodotto artistico che produce bellezza cura la ferita, il trauma. Quindi l’arte è una riparazione del trauma.
In effetti dobbiamo fare una precisazione direi “contemporanea”. È più preciso dire che l’arte produceva bellezza in veste di cura dell’anima fino a van Gogh. Per tutta la storia dell’umanità l’arte s’è presa la briga di creare il bello ed è solo da un secolo che le cose sono cambiate. Da Duchamp in poi con i suoi orinatoi, da Fontana in poi con i suoi tagli nella tela, da Stanislavskij ed Eugenio Barba in poi con le verità emotive sul palco, in tutte le discipline artistiche. Dicevo, l’arte, da questi signori in poi, non si adopera più a costruire il velo che cura la ferita, ma mostra direttamente la ferita nuda nella sua verità. È solo un diverso modo di prendersene cura. È un dare dignità alla ferita rendendola opera d’arte. È un restare vicino alla ferita senza esorcizzarla. È un processo di elaborazione della ferita.
È il processo del lutto.
Il lavoro psichico contemplato nell’arte diventa lo stesso lavoro psichico contemplato nel lutto.
Cos’è il lutto se non il rimanere al fianco della ferita? Il lutto è un restare vicini al morto ed alla morte. È un restare al fianco della ferita. E questo restare silenziosi ed intensi al fianco del trauma, senza allontanarsi ne è la cura, il lavoro paradossale del richiamare costantemente alla memoria il danno per poterlo dimenticare. Un ricordare per dimenticare. La ricerca della presenza per arrivare all’oblio e dare una forma nuova al trauma.
Ebbene questa è l’arte contemporanea. Non più il velo di bellezza che copre il trauma per dargli forma diversa, ma il richiamo del trauma per stargli vicino finché non assuma una forma diversa dentro di noi. In questo processo l’artista ha una marcia in più rispetto allo psicanalista nel vivere, riparare, tollerare, guarire il trauma. Per risolvere tutto ciò, l’artista elabora con un’opera di genialità la soluzione catalizzandola in un unico prodotto: l’opera d’arte. Lo psicanalista invece elabora il tutto in un’opera di manovalanza, una strana, lenta, lunga e complessa operazione che giorno dopo giorno, sogno dopo sogno costruisce nuovi significati senza tra l’altro essere accompagnato dalla bellezza estetica dell’artista.
La ferita, il trauma preverbale, l’angoscia di morte viene quindi incorporato nella bellezza. Il processo artistico non è più l’esorcismo, la maschera della morte ma è la morte che viene integrata nella bellezza. Tutti dobbiamo morire forse anch’io riassume in una battuta comica tutto ciò.
L’umorismo evidenzia la morte, non la nasconde. Come l’arte giapponese del Kintsugi che evidenzia le fratture della ceramica in frantumi incollando i pezzi ed impreziosendo le fratture colando oro. Le cicatrici diventano preziose, esaltate e non nascoste con vergogna.
Vediamo ora come trasformiamo tutto ciò in un percorso clinico. Come possiamo utilizzare queste dinamiche psicologiche esistenti in natura, in dinamiche terapeutiche. Come possiamo trasformare questi processi creativi in processi di cura. L’arte terapia ci viene incontro. Termine che non amiamo, per questo parliamo di arte che cura. Per brevità vi riporto molto sinteticamente solo un paio di esempi.
Il primo riguarda Marco un ragazzino autistico grave (non gravissimo) con il quale lavoriamo in un laboratorio scolastico nella sua classe. Noi interveniamo sempre con l’intera classe, mai con i ragazzi problematici da soli. L’operatore ha sviluppato una relazione con il ragazzo, ovviamente per quanto ciò sia possibile, attraverso la mediazione del disegno. Il ragazzo un po’ alla volta ha iniziato ad essere sempre più soddisfatto del suo operato artistico. Si percepiva in lui una sorta di “piacere identitario“. Si percepiva che il suo mondo interno si integrava con se stesso, quasi si amalgamava in un tutt’uno, ovviamente solo in alcuni sporadici momenti. Con molta difficoltà siamo riusciti a farlo interagire con gli altri grazie al disegno collettivo. L’esercizio è semplice. A vederli sono tanti ragazzi che fanno tutti insieme un disegno di gruppo, ma ciò che sta accadendo, è un evento eccezionale. Il mondo profondo di Marco iniziava ad entrare in sintonia, benché minima con gli altri.
Abbiamo visto Marco alzare lo sguardo verso i suoi compagni mentre si adoperava in un disegno collettivo. È stato un momento di grossa gioia per tutti gli operatori e per noi un risultato grandioso. All’improvviso Marco si è alzato sul disegno, ha preso le mani della sua insegnante ed ha iniziato a ballare.
L’altro esempio che accennerò velocemente, e poi chiudo, riguarda il nostro specifico approccio terapeutico, lo Psicodramma Analitico.
Quando inizia la drammatizzazione dell’emergente psichico del paziente, ciò che verbalmente ci racconta, il rivissuto, lo porta ad una profonda regressione, La regressione analitica, con lo psicodramma viene fortemente rafforzato dalla mediazione corporea, dalla percezione fisica. La regressione diventa così intensa che l’hic et nunc diventa ibi et tunc.
Il qui e ora si fonde e si confonde con un lì ed allora.
Ho sentito molte persone che a seguito dell’esperienza di una sessione di psicodramma che li ha visti protagonisti, hanno detto che il salto temporale sembrava quasi magico, il presente scompariva, il setting, vissuto quasi come onirico, consente di riportare il protagonista in certe parti di sé molto antiche. Percezioni spesso di tipo preverbale emergono alla consapevolezza sotto forma di insight. L’atto della drammatizzazione conduce verso quei vissuti profondi, passando per processi primari, preverbali, prendendo acqua dallo stesso pozzo dove si dissetano i sogni. E lui è in un altro mondo, quello della regressione, dove va a rivisitare antiche dinamiche inconsce. Questo è l’ambito che noi chiamiamo con Moreno la semirealtà. La persona, il paziente, è reale e concreto in quel momento, le emozioni sono vive e forti. Il contesto sembra magico. Al suo ritorno dal viaggio dentro di sé gli si può chiedere di drammatizzare i suoi desideri, oppure il suo futuro, scoprirà tante cose di sè per lui inimmaginabili. Perché accade ciò? O meglio ancora, quando accade ciò? Ciò accade solo se il lavoro fatto fino a quel momento riesce a riportarlo nei vissuti dei processi primari perlomeno in quella parte di preconscio dove certi materiali profondi possono affiorare e perché no, essere trasformati in positivo.

BIBLIOGRAFIA

Arieti Silvano, “Creatività: la sintesi magica”, ed Il Pensiero Scientifico, Roma 1979, altre edizioni: 1986, 1990

Bollas Christopher, ”Cracking Up. Il lavoro dell’inconscio”, Raffaello Cortina Editore, MI 1996

Bollas Christopher, ”L’età dello smarrimento”, Raffaello Cortina Editore, MI 2018

Recalcati Massimo, “Il mistero delle cose. Nove ritratti d’artista” ed Feltrinelli, MI 2016

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