di Pino Cotarelli
“Mafie e media”, è un interessante libro di Mario D’Amiano, giovane studioso laureato con brillante tesi sulla storia delle mafie, edito da Giammarino editore (pp. 75, euro 13,50), con prefazione di Isaia Sales, docente UNISOB di storia delle mafie, già sottosegretario al Ministero del Tesoro, che descrive il delicato rapporto esistente nel trattamento, da parte dei mass-media, di fatti di mafia e di quanto a questo mondo risulta collegato. Trasparenza, onestà di valutazione, cronache veritiere, dovrebbero rappresentare i presupposti di un corretto approccio che si presenta sempre più complesso e difficile e che espone, non di rado, a seri rischi. Al contrario invece, sottovalutazione, velature e sfumature fuorvianti o addirittura complice superficialità, finiscono per offuscare, se non a coprire tante verità scomode. Queste le evidenze che l’autore Mario D’Amiano, riporta con lucida semplicità, con linguaggio immediato e accessibile, in questo fruibile suo saggio, frutto di approfondite e puntali disamine basate su numerose e meticolose ricerche, su fonti autorevoli, citate su note a margine oltre che in apposita bibliografia e sitografia. Molti gli atteggiamenti non consoni, superficiali o addirittura contrari all’etica professionale, che hanno contribuito ad alimentare quel diffuso clima di sfiducia generale che ha attraversato l’animo della popolazione e ancor di più, gli addetti ai lavori impegnati in prima linea, difronte a gravissimi fatti di mafia, come ad esempio la stagione stragista e i gravissimi fatti di Capaci e di Via D’Amelio, in cui trovarono la morte i giudici Falcone e Borsellino, che pure avevano subodorato la strana alleanza mafia e settori deviati dello stato. Il negazionismo e le complicità, non ha risparmiato gli ambienti ecclesiastici oltre che i politici e l’imprenditoria connivente. Una criminalità che aveva ben chiaro quanto fosse importante il consenso, come l’omertà, che sempre più spesso si è prodigata nel tentativo di sostituirsi allo stato distribuendo lavori, oltre che favori. Una ricostruzione che risale anche agli avvenuti contatti da parte dell’esercito americano con la mafia, per favorire e semplificare le condizioni di sbarco degli alleati nella Seconda guerra mondiale. La sottovalutazione del fenomeno della Ndrangheta, considerata una organizzazione minore, rivelatasi successivamente una criminalità addirittura superiore persino alla camorra oltre che alla mafia. Oppure la relativa tolleranza verso la camorra che ha usufruito, nel passato, di un margine di libertà di manovra, in particolare per i suoi traffici legati al contrabbando di sigarette, considerato ammortizzatore sociale per le numerose famiglie appartenenti alla classe napoletana meno abbiente. Ancor peggio la ribalta che Canale 5 con Barbara D’Urso, ha riservato al matrimonio della vedova di un boss con un cantante neomelodico; un esempio di cattiva televisione e di superficialità nel consentire lo spazio pubblico a personaggi appartenenti al mondo criminale. Il mondo musicale, in particolare quello neomelodico, che spesso decanta le gesta di appartenenti alla criminalità. Una conclusione che, attraverso l’intervista che l’autore ha fatto a Massimo Giletti, giornalista con particolare sensibilità ed equilibrio nel trattare argomenti di criminalità, fa comprendere quanto un giornalista di inchiesta, spesso si ritrovi nella condizione di isolamento, quando invece una azione comune corale dei mass media, risulterebbe molto efficace nel contrasto e nella lotta senza quartiere alla criminalità, questa piaga sociale che mina le basi della sana economia di una intera nazione.
Abbiamo rivolto alcune domande all’autore Mario D’Amiano.
Come nasce l’idea di questo libro?
L’idea di pubblicare questo testo nasce dalla volontà di contribuire, nel mio piccolo, a rendere migliore la realtà che mi circonda. L’aspirazione è certamente ambiziosa, sicuramente utopistica, ma credo debba accompagnare il lavoro di qualsiasi giornalista. Se, come afferma qualcuno, chi detiene il potere vuole un popolo diviso (dìvide et ìmpera dicevano i latini), impaurito e ignorante, credo che sia anche grazie alla cultura che si possa fermare questo giogo. Una persona, quanto meglio è informata tanto più è consapevole di ciò che la circonda. Più è consapevole e diversamente può agire. Il mio libro cerca quindi di analizzare le falle che accompagnano il racconto delle mafie italiane che, a detta dei massimi esperti, rappresentano il problema più grave della nostra organizzazione democratica. La mafia froda il presente e saccheggia il futuro di intere generazioni, questo avviene spesso nel silenzio di chi dovrebbe divulgarlo.
Un saggio che ha richiesto un lavoro impegnativo di ricerca e approfondimento?
Certo. E’ stato un lavoro impegnativo, delicato e appassionato. L’argomento è spinoso, va affrontato con le giuste conoscenze e una certa lucidità. Ho studiato, ho analizzato i dati di fatto, ho provato padroneggiare la materia prima di mettere nero su bianco. Parlare di mafie non è semplice, bisogna curare ogni termine per non diffondere idee malsane.
Si è pervenuti ad un migliore contenimento dei fenomeni di Mafia, Camorra, ‘Ndrangheta, alla luce dei diversi recenti successi dello Stato?
Le mafie sono radicate nella nostra società. Le azioni repressive nei confronti di queste organizzazioni sono fondamentali ma da sole non bastano. Se, in determinati territori, nell’imminenza di ogni maxi-retata non si azionano anche altri apparati istituzionali, gli spazi lasciati vuoti dai clan, dalle cosche o dalle ‘ndrine rischiano di essere nuovamente conquistati da altri gruppi mafiosi. E’ in questi momenti che anche la rete culturale deve attivarsi con più forza. Bisogna offrire, a chi cresce in contesti dominati dalla subcultura mafiosa, possibilità diverse da quelle che offrono i clan. Un’altra idea di vita, un punto di vista sul “mondo” completamente diverso da quello che si sperimenta quotidianamente. C’è chi solo in carcere riesce a imparare mestieri, a scoprire passioni e vocazioni. Conosco persone che mi chiedono perché queste opportunità vengano offerte dallo Stato solo tra mura e sbarre, nel migliore dei casi, considerando che molti sono le carceri che non funzionano a dovere; e scontata la pena il rischio di recidive è alto. Ci sono quartieri, a Napoli, dove il boss è visto con stima e riconoscenza, i carabinieri come nemici. E questo non avviene solo tra famiglie dedite al crimine, ma anche tra chi vive onestamente. Lo Stato non può farsi vedere solo una tantum col suo volto più crudele ai ragazzi che crescono in queste zone, ma dovrebbe essere presente quotidianamente come strada alternativa (e più conveniente) alla delinquenza. Gli spazi lasciati vuoti dalle mafie devono subito essere conquistati dallo Stato. Ovviamente non è semplice realizzare questo concetto, ma credo che solo così si possa ottenere un vero e duraturo successo.
Massimo Giletti, fine giornalista di inchiesta, risulta spesso isolato nella sua opera di svelamento di fatti di mafia?
“La solitudine è un prezzo che si paga moltissimo sul piano umano” mi ha detto Massimo Giletti quando gli ho posto una domanda simile. Poi ha aggiunto: “Andare fino in fondo anche nei palazzi dove il potere conta è una virtù di pochi”. In Italia esistono diversi giornalisti con questa virtù, ritengo che Massimo Giletti faccia parte di questa minoranza. Alcuni, non solo tramite la Tv ma anche attraverso altri media, svolgono un lavoro quotidiano eccezionale, si assumono rischi e responsabilità importanti ma hanno poca visibilità. Talvolta anche poco supporto. Apprezzo molte trasmissioni televisive che in Italia svolgono approfondimenti seri non solo su argomenti mafiosi, da Report a Piazzapulita, ammiro la leggerezza intelligente di Propaganda Live, mentre altri canali offrono spazio alla becera ignoranza, la legittimano e la incentivano. Non penso che Massimo Giletti sia completamente isolato nella sua opera di svelamento di fatti di mafia, ma certamente non è accompagnato a dovere dall’azione di molti altri colleghi. In Italia si parla poco di mafie.
Come si possono correggere gli atteggiamenti di superficialità da parte dei media nei confronti dei fatti di mafia?
La soluzione si troverebbe semplicemente rispettando la deontologia professionale, ma forse la questione è più complessa di ciò che sembra. Con l’avvento della rivoluzione digitale il modo di fruire i contenuti mediali è cambiato, con esso si sono evoluti anche i linguaggi di chi fa informazione. Le nostre vite viaggiano oggi a ritmi impressionanti. Siamo un popolo disinteressato al bene collettivo, gli elettori demandano agli eletti qualsiasi impegno di natura politica, economica, sociale, culturale. Ci si informa con grande velocità e superficialità, c’è chi si ferma al minuto e mezzo del tg, chi al titolo delle notizie, chi al “sentito dire”. Proporre dei contenuti di elevato spessore culturale, approfondimenti articolati su questioni serie come quella mafiosa, diventa quindi difficile. Il rischio è che, offrendo lunghe analisi, si riesca ad assecondare solo un pubblico di nicchia vanificando forse la legittima ambizione di molti autori o editori: arrivare a quante più persone possibile. Affascinare il cosiddetto “grande pubblico” senza utilizzare espedienti come il sensazionalismo, la morbosa curiosità, la volgarità, richiede un grande ingegno. Un linguaggio diverso. Quello che non si può accettare più degli atteggiamenti superficiali, che comunque vanno ostruiti con l’approfondimento, credo siano gli atteggiamenti ambigui nei confronti di questioni legate agli ambienti mafiosi. Ritengo gravissimo che in un paese della democrazia occidentale ancora oggi, di fronte a milioni di persone, si possano far passare dei messaggi filomafiosi senza pagarne le dovute conseguenze.
Il nuovo corso della Chiesa, anche attraverso l’azione di sensibilizzazione di Papa Francesco, può eliminare gli atteggiamenti di connivenza con la criminalità?
Il nuovo corso dettato da Papa Francesco, che nel 2014 parlò per la prima volta nella storia di scomunica per i mafiosi, può certamente aiutare nell’opera di delegittimazione della società nei confronti dei mafiosi. Tuttavia, il processo si prevede lungo e non per forza lineare: ad oggi non sappiamo quali idee avranno i prossimi papi nei riguardi delle mafie. Nella società secolarizzata della quale facciamo parte, la Chiesa sta perdendo la sua forza di evangelizzazione, la sua capacità di influenzare i pensieri e dunque i comportamenti degli individui. La Chiesa è stata attaccata violentemente ed essa stessa delegittimata, perdendo così parte della sua credibilità. Gli atteggiamenti di connivenza con le mafie finiranno forse quando finiranno le mafie. O viceversa: le mafie finiranno quando finiranno gli atteggiamenti di connivenza con esse. Tra tutte le istituzioni, comunque, ritengo che sia proprio quella ecclesiastica a doversi assumere le maggiori responsabilità nei confronti di questa piaga. Accettare che interi territori vengano impoveriti e inquinati dal malaffare, accettare che si possa morire di tumore per colpa di una malasanità che sa di mafia, accettare che in politica si presentino uomini legati a interessi mafiosi e non fare nulla per impedirlo o addirittura assumere un ruolo attivo nel realizzare ciò non è da buon cristiano. E’ un peccato.
Non è da paese civile fornire la scorta a giornalisti che hanno trattato temi di mafia delicati, come si può evitare questa condizione di democrazia scortata?
Credo che sia da paese civile proteggere con ogni mezzo persone che si espongono per cambiare le cose. La condizione di “democrazia scortata”, come la definisce lei, la si potrebbe evitare, per esempio, se di mafie ne parlassero tutti, se ognuno contribuisse a questo fine. Siccome ciò non accade, le poche persone che si espongono a gravi minacce vanno certamente protette. E da italiano che paga le tasse, per rispondere a polemiche sollevate anche da politici dei massimi sistemi nostrani, sono ben felice di contribuire al pagamento delle loro scorte. Sono meno felice, invece, di pagare le tasse per mantenere sulle tribune politiche gli stessi individui di trenta o quaranta anni fa.
Progetti letterari prossimi in cantiere?
Ho buone intenzioni e un’idea precisa, anche un po’ ambiziosa, con l’intento di cui sopra: provare a migliorare la realtà che mi circonda o quantomeno fare la mia parte.
Come immagini il tuo futuro?
La mia visione del futuro non è dissimile da quella di molti miei coetanei. Le generazioni che ci hanno preceduto hanno goduto di possibilità che a noi sono state precluse. La netta differenza nelle condizioni di vita tra il Nord e il Sud di questo Belpaese mi preoccupa, soprattutto perché non vedo all’orizzonte forze politiche capaci di cambiare ciò. A questo si aggiunge l’inconsapevolezza di chi vive al Sud dei tanti diritti mancati, e temo che si debba partire quindi dalle basi per un processo così lungo che certamente non riuscirò a vedere compiuto. Ad oggi preferisco non proiettarmi al futuro ma vivere il presente.
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