di Sergio Mantile
Negli ultimi 500 anni, in Italia, si sono verificati 174 disastri sismici, con una media di un terremoto distruttivo ogni 3-4 anni. Tra le regioni della penisola sono la Sicilia e la Calabria ad aver patito il numero più alto di disastri sismici, con una media di un terremoto ogni 18 anni circa. Solamente nel XX secolo, i terremoti in Italia hanno causato 200.000 vittime e, dal punto di vista economico, solamente quelli che si sono verificati tra il 1968 ed il 1998 sono costati ai contribuenti italiani 180.000 miliardi di lire[1].
“ … Benché tutto ciò rappresenti in un certo senso un’eredità consapevole nella memoria collettiva della popolazione, non sono ancora chiaramente individuabili gli atteggiamenti di risposta a questo problema… ,,[2]. Per quel che riguarda in particolare i Campi Flegrei, risultano sconcertanti sia la lentezza con cui le istituzioni nazionali hanno recentemente prodotto un piano di protezione civile, peraltro molto discutibile, per la prevenzione del rischio bradisismico e vulcanico, e sia la indifferenza, loro e di quelle locali, all’aumento vertiginoso del rischio, dovuto al volume di edifici che in quel territorio vi vengono senza sosta edificati e alla densità abitativa, che a Pozzuoli, in cinquant’anni, è praticamente raddoppiata, passando da 959 abitanti per kmq del 1951 a 1823 abitanti per kmq del 2001[3].
In pratica, in soli trentacinque anni e dopo due evacuazioni, dopo la spesa di un migliaio di miliardi di lire, per la costruzione di nuovi quartieri di devastante impatto ambientale e, soprattutto, nonostante l’accresciuta consapevolezza generale intorno alle problematiche della protezione civile, ebbene, a Pozzuoli il rischio di disastro per effetto sismico è aumentato.
È stata l’azione dell’uomo a determinare tale aumento del rischio, in quanto l’altro fattore che concorre al disastro, ossia il bradisismo, è noto, sebbene non precisamente prevedibile, e immodificabile. Il ruolo dell’uomo, ed in particolare la sua minore o maggiore capacità di adattamento agli eventi naturali rari, è fondamentale nella produzione di disastri.
Il bradisismo l982-1984
Quello che distingue la crisi bradisismica del 1982-84 a Pozzuoli da altre crisi catastrofiche a innesco naturale, come ad esempio i terremoti, è l’inversione della durata del fenomeno naturale e dei suoi effetti rispetto a quello della reazione, soprattutto in termini di riparazione possibile del danno, ovvero di ricostruzione.
Con il terremoto si ha un evento della durata di alcuni secondi o minuti con danni immediati più o meno estesi in termini di perdita di vite umane e di lesioni alle persone e alle cose. Con il bradisismo ‘82-‘84 si è avuto un fenomeno dannoso ma non catastrofico, durato due anni e mezzo, che, pur minacciandone un altro catastrofico, ha offerto ampi margini di operatività, in particolare per l’informazione e la formazione pubblica, che sono decisive in tali situazioni nell’orientare la percezione dell’evento e i comportamenti reattivi. In tal senso, invece, nonostante la lunga durata del fenomeno, l’azione politico-amministrativa è stata confusa e contraddittoria, oppure assente, nonostante che già sette anni prima fosse stata risolta abbastanza positivamente l’emergenza del terremoto in Friuli. La quantità di esperienze accumulate in quell’occasione (che fu persino attentamente studiata dall’Università di Trieste, sotto il profilo della sociologia dei disastri[4]) sembra in qualche modo essersi dissolta innanzi alla lenta evoluzione dell’emergenza bradisismica.
Una definizione di disastro
Un disastro sismico, ossia un terremoto dagli effetti estesamente distruttivi, “… è il risultato del rapporto fra lo scuotimento del suolo, dovuto all'energia liberata, i caratteri geologici dei terreni di fondazione e quelli costruiti del mondo abitato. Ciò che varia nel tempo storico sono i sistemi antropici, risultati delle economie e delle culture presenti sul territorio. Un forte terremoto, dunque, può non essere necessariamente un disastro… ,,[5].
Se i primi studi sui disastri si concentravano sul periodo dell’ emergenza, “… trattandolo di solito come analiticamente separato rispetto alla preesistente struttura del sistema sociale… Ora c’è invece una crescente accettazione del ‘principio di continuità’, vale a dire che la situazione del predisastro è il miglior predittore del comportamento durante e dopo il disastro…Inoltre gli studi effettuati dai ricercatori americani mostrano che gli aspetti politici, economici e socio-organizzativi esistenti nel periodo del pre-impatto esercitano una significativa influenza sul comportamento nel disastro. Il precedente grado di attività diretta all’attenuazione del rischio e di pianificazione in vista del disastro è un ovvio fattore che può influenzare la risposta al disastro…,,[6].
Persino l’attribuzione, sociale ed individuale, ad un evento del carattere di rarità, ovvero di “non normalità”, non dipende dalla sua frequenza oggettivamente rilevata, ma dalla capacità di dominarne culturalmente e/o tecnologicamente gli effetti. “…La normalità, in sintesi, è una misura direttamente dipendente dalla quantità di dominio (tecnologico, culturale) a disposizione di un (sotto) sistema nei confronti dell'ambiente di riferimento… La catastrofe, il disastro, in quanto eventi rari, dannosi e locali, sono definibili come l’avverarsi della quantità di non-dominio di un sottosistema sulle proprie relazioni ambientali…,,[7].
Per quel che riguarda Pozzuoli, evidentemente, non un disastro effettivo, ma la sola minaccia del disastro ha rappresentato l’avverarsi di una quota di incapacità di dominio tecnologico-politico sul territorio puteolano.
E questo rende ancora più incomprensibile le ragioni di tale incapacità. Appena sei anni prima, nel caso del terremoto nel Friuli del 1976, non si era evidenziata tale incapacità di dominio.
Peraltro, nel caso del terremoto in Campania e Basilicata del 1980, il disastro aveva trovato appigli giustificativi della difficoltà di dominio dei suoi effetti nel suo improvviso e imprevedibile avverarsi e nella ampiezza del danno di vittime umane e rovine materiali provocato.
Per il bradisismo del 1983-84 si dovrebbe parlare, piuttosto, di opzioni politico-culturali più o meno adeguate e/o propense ad una tutela territoriale consapevole dell'inestimabile patrimonio dell'umanità rappresentato dai Campi Flegrei ovvero ad un riassetto territoriale funzionale ad uno sviluppo economico cieco e selvaggio, che li avrebbe brutalmente declassati a terreni edificabili.
Aspetti socio-economici della ricostruzione
Generalmente, sono tre i diversi criteri che si adottano quando è necessario ricostruire un territorio o un ambiente umano distrutto, criteri che si definiscono per la maggiore o minore conservazione dell’esistente: a) restauro o ripristino; b) ricostruzione; c) ristrutturazione[8].
Il restauro, o ripristino, si realizza applicando gli interventi costruttivi alle strutture meno lesionate e agli edifici di valore storico-culturale, conservandone la forma originale. Il restauro è il criterio che presenta il massimo rispetto della comunità economico-sociale e culturale.
La ricostruzione si rende necessaria per le strutture che sono state rese inutilizzabili dal disastro e la cui distruzione, peraltro, non compromette né la struttura sociale né il tessuto urbano, in quanto riguarda la sostituzione di singole unità e non strutturali ridefinizioni territoriali.
La ristrutturazione, infine, è il criterio in assoluto più impegnativo e radicale, sia in termini finanziari che di impatto ambientale e storico sociale; quando viene adottato lo si fa perché si decide di operare importanti modifiche dell’assetto territoriale e urbano, di riconvertire il settore produttivo e le infrastrutture di servizio.
A questi tre criteri si aggiungono la prevenzione, che serve a rendere un contesto ambientale più sicuro rispetto al rischio del riproporsi di calamità, e le riconversioni ed il recupero di vecchi elementi con funzioni nuove, attribuite da una nuova logica progettuale[9]. Nel caso di Pozzuoli, è stato proprio il criterio della ristrutturazione, ossia il criterio più costoso e più radicale, che si è adottato, per un disastro solo “annunciato”.
Proposta e realizzazione di Monterusciello
La forte scossa sismica del 4 settembre ’83 (cui ne seguirà un’altra ancora più forte il 4 ottobre) fa da spartiacque netto fra due periodi. Prima di allora i politici, soprattutto quelli locali, sembrano temporeggiare. Con la scossa del 4 settembre, gli abitanti, ormai stremati da più di un anno di segnali preoccupanti e di scosse sismiche, fuggono “…spontaneamente dalla città per andare a cercare riparo nei dintorni, verso nord, sul litorale lungo la via Domitiana o verso l’interno nei comuni di Quarto, Giugliano, nel quartiere napoletano di Pianura…”[10].
Prima dell’autunno dell’83, il Ministero della Protezione Civile aveva già autorizzato la costruzione di 600 alloggi, progettati dall’Istituto Autonomo Case Popolari, in località Monterusciello. “…Dalla fine dell’autunno 1983 la stampa e la televisione annunciano la possibilità di costruire altri 20.000 vani per compensare la mancanza di alloggi provocata dal sisma, una mancanza sempre valutata in modo ipotetico, mai preciso…”[11]. Il 31 gennaio 1984 viene pubblicamente presentato il Progetto Pozzuoli, dal nuovo ministro per la Protezione Civile, il democristiano Vincenzo Scotti e dal prof. Uberto Siola, preside della facoltà di Architettura di Napoli. Preceduto da un’intensa campagna di stampa, che tende a presentarlo come l’ideazione di una nuova Pozzuoli, completamente diversa da quella fatiscente appena abbandonata, e non come una sua parte, il progetto appare chiaramente molto ambizioso.
Il primo obiettivo di tale progetto è, infatti, quello di realizzare direttamente le case definitive, riducendo al minimo, a meno di un anno, la fase dell’alloggiamento della popolazione in sedi provvisorie, che è generalmente costosa, fonte di disagi ed esposta al rischio di diventare permanente.
Il secondo obiettivo, espresso chiaramente da Siola, è quello di “assegnare al nuovo quartiere un ruolo non solo residenziale…ma anche…un ruolo rispetto all’intero territorio comunale (sede municipale, museo, scuole, ecc.) e all’area metropolitana (polo di ricerca integrata, centro regionale per il tennis, ecc.)…”[12].
Per realizzare il primo obiettivo si rende necessario operare al di fuori delle regole correnti, che implicherebbero tempi sicuramente più lunghi di quelli prefissati. Così il mega quartiere viene programmato in assenza di un piano regolatore generale e gli appalti per la costruzione dei singoli lotti vengono assegnati con modalità che ampliano consistentemente il potere discrezionale di chi ne gestisce le procedure. Il secondo obiettivo, invece, prefigurando Monterusciello come strumento di razionalizzazione del territorio sia comunale che metropolitano, ne fa l’esplicito raccordo dei Campi Flegrei con la conurbazione napoletana.
Il piano viene contestato fin dalla presentazione, sia da docenti “dissidenti” dello stesso Ateneo napoletano, che da urbanisti del calibro di Pier Luigi Cervellati, autore del piano di ristrutturazione del centro storico di Bologna.
A parte lo spreco del patrimonio edilizio esistente, che potrebbe invece essere recuperato (lo sarà, infatti, ma da un mercato immobiliare in forte evoluzione, che sta già comprando per rivendere negli anni a venire a prezzi anche decuplicati); a parte il sito prescelto, che è, nonostante il parere favorevole della Commissione Grandi Rischi, a rischio sismico, ed è anche l’ultima parte agricola del territorio.
A parte tutto ciò, le critiche si concentrano sul fatto che il nuovo quartiere si aggiungerà alle urbanizzazioni già realizzate o in via di realizzazione, nella stessa zona, nei quartieri limitrofi di Quarto e Giugliano, imprimendo inevitabilmente uno spostamento del baricentro di tutta l’area. Le critiche al progetto non avranno, sulla stampa, né lo stesso rilievo, né lo stesso favorevole accoglimento che erano stati espressi per il progetto stesso.
Nello stesso anno, il 1984, in cui prende corpo l’operazione Monterusciello, viene varato il “condono edilizio”, che farà decollare la più vasta e cieca operazione di edificazione dei Campi Flegrei, che pure vantano una millenaria storia di antropizzazione, e la camorra, dopo aver partecipato alla realizzazione di una parte di Monterusciello, si svilupperà e prospererà nell’area.
Relativamente alla popolazione, gli abitanti di Pozzuoli sono passati dai 71.000 del 1981 agli 86.000 attuali, nonostante alcune migliaia di puteolani si siano progressivamente trasferite nei comuni limitrofi.
L’esodo dei puteolani è stato infatti compensato dalle migliaia di napoletani che intanto si sono trasferiti a Pozzuoli, oltre che a Quarto e a Giugliano; così che oggi l’intera area flegrea è una combinazione di cittadini provenienti da comuni diversi da quelli di residenza, che trovano quasi esclusivamente nel consumismo e nelle sue pratiche lo strumento di omologazione culturale.
[1] Cfr. Emanuela Guidoboni, Un 'antirisorsa del Sud: i disastri sismici nella sfida economica, in Piero Bevilacqua e Gabriella Corona, (a cura di), Ambiente e risorse nel Mezzogiorno contemporaneo, Donzelli, Roma, 2000
[2] Emanuela Guidoboni, ibidem, p. 246
[3] Fonte: ISTAT
[4] Cfr. a riguardo B. Catterinussi e C. Pelanda (a cura di), op. cit.
[5] Emanuela Guidoboni, op. cit., p.250
[6] Franco Demarchi, Aldo Ellena e Bernardo Cattarinussi, (a cura di), Nuovo Dizionario di Sociologia, lemma “Disastro”, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Milano), 1987
[7] B. Catterinussi, C. Pelanda, (a cura di), Disastro e azione umana. Introduzione multidisciplinare allo studio del comportamento sociale in ambienti estremi. 1981 , Franco Angeli, Milano, pp.22-23
[8] B. Catterinussi, C. Pelanda, ibidem pp. 116-117
[9] B. Catterinussi, C. Pelanda, ibidem pp. 117-118
[10] Angela Giglia, Crisi e ricostruzione di uno spazio urbano, Milano, Edizioni Angelo Guerini e Associati, 1997, p.22
[11] Angela Giglia, ibidem, p.25
[12] Angela Giglia, ibidem, p.24