Sociologia giovanile
Rapporto NEET:
la complessità di un fenomeno
di Pasquale Martucci
Sono alcuni anni che importanti istituti di ricerca, sotto la spinta di progetti e finanziamenti, si occupano di studiare la sofferenza di un’intera generazione giovanile, quella che va dai 15 ai 34 anni, che non lavora, non studia, non si forma. È stato analizzato nelle sue molteplici sfaccettature il fenomeno NEET (Not in Education, Employment or Training), indicando percorsi integrati multi-misura di media-lunga durata, per sostenere la necessità di innalzare competenze, livelli di istruzione, con interventi di accompagnamento e inserimento al lavoro. La fotografia di questa condizione risulta essere impietosa: nell’ultimo decennio il problema si è ingigantito, più al sud che al nord (in media con quello europeo), più tra le donne, più con il crescere dell’età.
Il recente Rapporto: “NEET tra disuguaglianze e divari. Alla ricerca di nuove politiche pubbliche” (Futura, novembre 2022), curato da ActionAid-CGIL Nazionale, con prefazione di Giustina Orientale Caputo, Alessandro Rosina e Chiara Saraceno, sottolinea la necessità di un ripensamento radicale delle politiche adottate. Occorre riconsiderare i servizi, lavorare a stretto contatto con i territori, rafforzare le reti di prossimità, intercettare i giovani più lontani dalle opportunità. E ripensare soprattutto strumenti e politiche pubbliche: ad esempio, Garanzia Giovani, Contrasto alla precarietà nel lavoro, Rilancio degli investimenti sul sistema pubblico di istruzione e formazione, Pieno ed efficace utilizzo delle ingenti risorse che l’Europa sta mettendo a disposizione, dal PNRR ai Fondi strutturali, sarebbero questi gli ambiti su cui agire per invertire la tendenza.
Analizzando i dati, è palese come le regioni del sud hanno una quota molto alta di NEET. Per quel che ci riguarda da vicino, la Campania ha il 38,1%, anche se il riscontro andrebbe meglio spiegato: le aree metropolitane presentano un’incidenza maggiore; poi c’è questione delle diseguaglianze di genere. Ma è ancora poco rilevabile l’intera questione. Osservando le tipologie specifiche, sono i giovani dai 20 ai 24 anni, senza precedenti esperienze lavorative, residenti nel Mezzogiorno, con il diploma di maturità, il gruppo che preoccupa maggiormente. Si tratta di maschi, con nucleo familiare monogenitoriale, che vivono in una città metropolitana o un grande comune. Significativi rispetto alla popolazione e trasversale in tutta l’Italia sono i giovanissimi fuori dalla scuola: hanno dai 15 ai 19 anni, senza esperienze lavorative e inattivi. I NEET del terzo tipo sono quelli costituiti da ex occupati in cerca di un nuovo lavoro: hanno tra i 25 e i 29 anni, hanno perso o abbandonato un lavoro, e ora sono alla ricerca di occupazione. Sono principalmente maschi, con un alto livello di istruzione, appartenenti ad un nucleo familiare single, che percepiscono un sussidio di disoccupazione. Vivono prevalentemente nelle regioni centrali del Paese.
Questi dati non permettono che una fotografia della situazione. È leggendo i commenti dei vari studiosi che si evidenziano le infinite contraddizioni, come quelle che riguardano disincanto e disillusione, oltre che marginalizzazione. Alessandro Rosina ha da tempo parlato di “generazione perduta” e di spreco di potenziale umano con costi rilevanti sul piano sia sociale sia economico, perché le nuove generazioni sono la componente più preziosa e importante per la produzione di benessere in un Paese. Le responsabilità sono dei vari attori istituzionali, economici, sociali (dalla scuola al sistema produttivo, alla famiglia, ai mass media), che dimostrano inefficienza e limiti. Occorrerebbe un cambio di atteggiamento verso le nuove generazioni e l’investimento nelle nuove competenze, sostenendo il sostegno all’intraprendenza. Le politiche fin qui attuate sono state ricondotte nel quadro dell’austerità europea, che ha considerato gli equilibri di bilancio accettando livelli elevatissimi di disoccupazione e sottoccupazione. Queste considerazioni erano già presenti nel volume: Rosina A., NEET Giovani che non studiano e non lavorano, Vita e Pensiero, 2015.
Lo studio ActionAid-CGIL Nazionale ha rilevato l’emarginazione dalla società, dalla scuola, dal lavoro di circa tre milioni di NEET italiani, il maggior tasso in Europa, che si colloca intorno al 25%, con incidenza che raddoppia al Sud ed è più frequente fra figli di migranti e donne. Le cause del fenomeno sono connesse con l’andamento dell’economia, del mercato del lavoro e ai legami di quest’ultimo con il sistema di istruzione e di formazione. Riguardano: la scarsa produttività di un Paese; i lunghi tempi di attesa per trovare il primo lavoro; la mancanza di orientamento nel periodo tra la fine della scuola e l’inserimento nel mondo del lavoro; la diffidenza o disinteresse nei confronti del mondo del lavoro; l’assenza di studenti-lavoratori.
In premessa, Rosina si sofferma sull’incertezza di “giovani deboli e mal preparati”, che stanno in una famiglia che funge da ammortizzatore sociale, con una responsabilizzazione che tarda a venire. Quando svolgono un lavoro lo fanno arrangiandosi e cadendo nel sommerso: una parte dei NEET è attiva nella ricerca del lavoro; un’altra è scoraggiata e non consapevole, anche se si tratta di lavoratori potenziali; ci sono infine gli scoraggiati, disillusi e bloccati da situazioni familiari problematiche o segnati da esperienze negative. Il problema è di formare ed inserire presto i giovani nel mercato del lavoro, attraverso: “una formazione efficace; il miglioramento delle competenze; l’accompagnamento nei percorsi di ingresso al mondo del lavoro; l’incentivo all’interno delle organizzazioni ed aziende alla valorizzazione del capitale umano”. Il lavoro, conclude Rosina, ha bisogno del contributo delle nuove generazioni per essere un motore di sviluppo inclusivo e sostenibile.
Chiara Saraceno sottolinea l’eterogeneità di un fenomeno che richiederebbe interventi differenziati: se c’è bassa istruzione, occorre rafforzare le qualifiche e attuare percorsi formativi che restituiscano motivazione e fiducia; se al contrario le NEET sono donne, è necessario favorire la conciliazione tra il ruolo di mamme e quelle di lavoratrici, attraverso servizi che aiutino a non dover scegliere di rinunciare o ai figli o al lavoro. Dai dati del Rapporto, la Saraceno analizza la “differenza tra i NEET attivi e quelli inattivi”, che sono soprattutto quelli a bassa scolarità. Si corre “il rischio della marginalità se non si sviluppano gli apprendimenti e le competenze personali”, ed allora occorre del tutto ribaltare la logica di mettere ai margini coloro che, per particolari condizioni, sono lasciati soli con le loro risorse, perché i Centri per l’Impiego non li intercettano e non si organizzano per raggiungere queste potenziali risorse.
Anche Giustina Orientale Caputo sottolinea la questione della mancanza di fiducia di giovani completamente fuori dal mercato del lavoro: “sono poco attrezzati in termini formativi, psicologici, materiali e familiari”. Si tratta di bisogni e necessità differenziate, variabili diverse, che oggi sono al contrario raggruppate per etichettare il “comportamento di un’intera generazione”. La conclusione è che il sistema dell’occupazione sconta “una scarsa capacità di innovazione, ricerca e crescita della dimensione delle imprese”, oltre che “scarsi investimenti pubblici per allargare la domanda di lavoro”.
La questione sollevata dal Rapporto sui NEET riguarda soprattutto una critica ai modelli di analisi fin qui condotti, che hanno considerato un’unica omogenea classificazione. Occorre al contrario sfatare i luoghi comuni: quelli che individuano i giovani sdraiati sul divano, ingrassati dal reddito di cittadinanza. Ed invece, analizzando le misure finora adottate non si può non rilevare che, ad esempio, Garanzia Giovani ha lasciato indietro i più vulnerabili, quelli che ne avrebbero avuto più bisogno. Esistono invece almeno quattro categorie di NEET: I giovanissimi fuori da scuola; Alla ricerca del primo impiego; Ex occupati in cerca; Gli scoraggiati.
Uno dei problemi è costituito da NEET inattivi. Allo stesso tempo, ci sono due ulteriori differenziazioni: coloro che non cercano e non sono disponibili e la Zona Grigia dell’inattività. Quest’ultima è stata aggiunta una volta riscontrato una sorta di sofferenza e scoraggiamento, quando si cerca un’occupazione per molto tempo ma non la si trova. Nel Mezzogiorno, ad esempio, la motivazione più frequente tra i NEET, con una percentuale del 25%, è tra coloro che non hanno cercato lavoro perché hanno ritenuto di non riuscire a trovarlo. Questo dato dimostra la fragilità del mercato del lavoro del Sud, che contribuisce a generare profonda insicurezza e sfiducia da parte dei giovani.
L’altro stereotipo riguarda il rapporto NEET e Reddito di cittadinanza (Rdc). Quest’ultimo nelle pur lodevoli intenzioni doveva essere una “misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro, di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale, nonché diretta a favorire il diritto all’informazione, all’istruzione, alla formazione e alla cultura attraverso politiche volte al sostegno economico e all’inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro”. Doveva essere un’opportunità di uscita da situazione di estrema fragilità, anche per la popolazione NEET. La disfunzione è dovuta al mancato decollo del Patto per il Lavoro presso il Centro per l’Impiego o di un Patto per l’inclusione Sociale presso i servizi sociali comunali, pre-condizione perché si potesse fruire del beneficio economico. È mancata la fase di intercettazione, presa in carico e di osservazione rispetto alle opportunità lavorative che si incontrano nel percorso di accompagnamento al lavoro.
Il problema in sostanza va inserito nel più ampio discorso che riguarda le condizioni del mercato del lavoro che oggi spinge verso salari non adeguati e condizioni di lavoro non dignitose, col rischio di intrappolare i ragazzi e le ragazze incidendo negativamente sul loro percorso di autonomia e indipendenza. Nel caso specifico dei NEET occorrerebbe favorire la co-costruzione di percorsi personalizzati e basati sulle competenze, le necessità e i desideri dei giovani, attraverso l’avvio di un lavoro di rete con soggetti che operano sul territorio.
Le misure finora proposte, il riferimento è soprattutto a Garanzia Giovani, non hanno assicurato opportunità per i giovani; il dato positivo, invece, è che dagli errori si può uscire per rendere più efficaci le misure. Esse prevedono ora una revisione dell’impianto di programmazione e attuazione delle politiche pubbliche puntando lungo due direttrici principali: da una parte, differenziare l’ampia ed eterogenea categoria dei giovani in target adeguati per tipologia di fabbisogno e di obiettivo di intervento; dall’altra investire le risorse non in uno o due tipi di intervento, ma costruire percorsi integrati multi-misura di media-lunga durata, che siano sostenibili nel tempo e strutturati. Ovvero, percorsi che sappiano adeguatamente integrare misure di innalzamento delle competenze e eventualmente dei livelli di istruzione con interventi di accompagnamento e inserimento al lavoro.
Le soluzioni proposte riguardano il punto di partenza delle politiche attive per il lavoro, ovvero alcuni presupposti: 1) raccogliere dati e informazioni sul territorio prima di decidere e agire; 2) tener conto del forte radicamento territoriale, che è una caratteristica delle iniziative e delle logiche di innovazione sociale; 3) costruire processi circolari in grado di tenere in equilibrio le istanze partecipative e le necessità di direzione strategica; 4) affiancare a tutte le fasi di progettazione e implementazione delle azioni e degli interventi un disegno valutativo in itinere, che sia in grado di produrre informazioni e dati per eventuali modifiche al Piano.
Tenendo presente questi quattro elementi, l’obiettivo del Piano è quello di individuare, coinvolgere e attivare giovani NEET utilizzando un approccio metodologico definito a livello centrale dal Dipartimento per le politiche giovanili e attuato attraverso una collaborazione con gli attori presenti sul territorio. Questo spiega perché è importante che le iniziative per le politiche giovanili siano indirizzate ai processi di innovazione volti ad agevolare progetti di partenariato locale e scambi di buone pratiche nell’ambito di un’unica prospettiva strategica nazionale. L’intenzione è di promuovere un intervento mirato a favore dei giovani, coordinato da una cabina di regia centrale che definisca metodo e percorso, ma che favorisca soprattutto la costruzione e lo sviluppo di reti territoriali collaborative dove i destinatari e gli attuatori dell’intervento lavorino insieme in ottica di co-progettazione per individuare interventi “personalizzati”. Per fare ciò, è importante “l’istituzione di un coordinamento interistituzionale” tra le amministrazioni pubbliche nazionali e territoriali che dovranno programmare interventi con i differenti strumenti finanziari disponibili.
Le conclusioni del Rapporto NEET sono orientate a destrutturare gli attuali interventi che considerano il mondo giovanile omogeneo e non articolato. Al contrario, ci sono molteplici differenze se si osserva la composizione dei gruppi: pensiamo ai diversi livelli di istruzione; alle situazioni di genere; ai giovani attivi che non trovano lavoro; a quelli inattivi che sono scoraggiati e non lo cercano. L’indicazione è il rafforzamento di un sistema a rete nei territori per intercettare le diversificate istanze, in un quadro di regole che tutelino i giovani e permettano loro una partecipazione attiva alla vita sociale ed economica del Paese.